Una svolta necessaria e i suoi rischi probabili di Massimo Giannini

Una svolta necessaria e i suoi rischi probabili NOMI ECOGNOMI Una svolta necessaria e i suoi rischi probabili L degasperiano «quarto partito», quello un tempo ultrapotente dei «padroni», va oggi virtualmente in piazza, trasfigurandosi cosi nel vessato «quarto stato» dipinto da Pelizza da Volpedo. L'immagine è paradossalo ma efficace. Perché tra i «poveri» industriali, stavolta, il disagio c'e davvero e li scuote - tutti, forse per la prima volta - in modo netto e trasversale, dai piccoli ai più grandi. Tutti strologano, in queste ore, se sia giusta o no la protesta, proporzionata o no la reazione rispetto all'«offesa» subita, cioè l'ultima manovrina del governo quasi interamente tarata sull'anticipo dell'imposta sul tfr. In realtà, la manifestazione confindustriale palesa un pregio che tuttavia, al tempo stesso, nasconde anche un limite. Il pregio è nel recupero di una dimensione «sindacale» che nell'organizzazione si era appannata da tempo: l'adunata odierna ricuce uno strappo, quello tra grandi e piccoli imprenditori, e al tempo stesso risolve, rendendola definitiva, la sana diaspora tra l'Impresa e la Politica, avviata nel '91 ad uno dei rituali convegni di Cernobbio. Allora Cesare Romiti e con lui l'intero vertice confindustriale dissero al governo Andreotti e ai pentapartito «da adesso basta, ognuno vada per la sua strada, ognuno con le proprie responsabilità». Fu quello il primo e a suo modo autocritico de profundis imprenditoriale verso una lunga e nefasta stagione consociativa, che con oggi si chiude per sempre. Prima il governo Berlusconi, poi il governo Prodi, dimostrano che ormai la Confindustria può non essere «governativa per definizione», com'era sempre stata in passato, ma che viceversa misura i governi sulla base di ciò che dicono e fanno. Tuttavia, il pregio di questa svolta «sindacale» tradisce anche il suo limite, che è quello di esaltare una funzione prettamente lobbistica rinunciando ad un respiro «politico», proprio nei momento in cui la lunga transizione italiana si dimostra ancora incompiuta e inconclusa. Può il ceto produttivo di questo Paese ripiegarsi su se stesso e sulla pura tutela dei suoi pur sacrosanti bisogni di corporazione, nel momento in cui si vanno a ripensare i ruoli delle istituzioni, si vanno a riscrivere le «tavole» dello Stato Sociale, si vanno a ridisegnare i confini dell'intervento pubblico in economia? In altre parole: può la Confindustria rinunciare, in una fase di trapasso com'è ancora crucila che stiamo vivendo, a definire e a indicare un suo «modello di società*, intorno al quale plasmare valori e aggregare consensi, anche al di là del suo perimetro di rappresentanza'' Ecco il limite della «piazza virtuale» di oggi, che agli occhi oell'opinione pubblica si popola clamorosamente di grisaglie insofferenti non già ad una constituency politico-economica ancora ingessata e disattenta ai bisogni dell'impresa come motore dello sviluppo, ma all'ennesimo e odioso balzello dell'imposta sul tfr. Ecco come un gesto di rottura simbolica che ha radici profonde, non inquadrato in un disegno strategico più generale, inaridisce e viene letto all'esterno in due modi, tutti e due negativi: o come una scelta «protestataria)' sguaiata ed eccessiva rispetto allo specifico e banale interesse di «bottega» da difendere, o come un'altra vigorosa spallata ad un governo nemico, quello di Centro-Sinistra, che gli industriali non amerebbero per principio e che vorrebbero a tutti i costi scalzare. Due chiavi di lettura probabilmente sbagliate, ma che tuttavia non si diffondono a caso. E benché paia un paradosso, è forse proprio quel tanto di ambiguità «politica» che alimenta l'equivoco, ricorrente, sull'esistenza di un presunto «partito degli industriali», sull'esistenza dei Poteri Forti che agiscono dietro le quinte e che fanno e disfano governi. E' anche per questo che gli imprenditori - che di «partito» non vogliono giustamente sentir parlare - devono prodursi in uno sforzo supplementare, inquadrando la propria riscoperta azione di lobby in un progetto globale per il Paese. Che non può circoscriversi alla comprensibile rabbia dei piccoli contro il Fisco vessatorio o al semplice e consolatorio richiamo dei grandi al «libero mercato». Necessario in un'economia sclerotizzata come la nostra, ma forse insufficiente rispetto alla complessità dei problemi e dei tempi. Massimo Giannini 77 I imi

Persone citate: Andreotti, Berlusconi, Cesare Romiti, Pelizza

Luoghi citati: Cernobbio, Nomi, Volpedo