ECONOMIA E GIUSTIZIA di Massimo Giannini

ECONOMIA E GIUSTIZIA ECONOMIA E GIUSTIZIA e finito, e forse non finirà mai. Sul inerito della sentenza - e di quella responsabilità «oggettiva» per fondi neri non iscritti in bilancio, per un valore pari alio 0,08 per cento del giro d'affari del gruppo Fiat - sarebbe vano e azzardato discutere, senza conoscerne le motivazioni. Sul metodo, si può segnalare magari il diverso approccio per così dire stilistico tra il «rito ambrosiano» e il «rito piemontese»: tanto il primo è stato contrassegnato dalle velenose schermaglie extraprocessuali intorno a Tangentopoli (chi non ricorda gli attacchi di Silvio Berlusconi al pool di Milano?) quanto il secondo si è viceversa contraddistinto per il sostanziale rispetto, in aula e fuori, per i reciproci ruoli istituzionali e le rispettive responsa¬ bilità funzionali. Ma una prima conclusione su questa vicenda si può invece azzardare fin d'ora: questo clima di perenne incertezza dei rapporti giuridici, questi processi che durano anni e anni, sono stati e continuano ad essere un danno per l'economia, una zavorra per il Paese. Da mesi e mesi, ormai, non c'è imprenditore né amministratore pubblico che non abbia temuto e non tema di finire nello schiacciante ingranaggio giudiziario per un appalto vinto o concesso, e che dunque si sia imposto o si imponga l'attesa, o peggio la rinuncia. Chi invece vi è già finito, non sa più quando ne uscirà. Quella che si è abbattuta sui vertici di Corso Marconi è infatti una sentenza di primo grado, giunta al termine di un rito abbreviato chiesto dagli stessi avvocati difensori, i quali hanno già annunciato la consueta, obbligata «trafila»: il ricorso in appello, ed eventualmente in Cassazione. Risultato: Romi¬ ti e Mattioli, presidente e direttore generale della più grande industria italiana, dovranno aspettare ancora chissà quanto, prima che venga scritta l'ultima e definitiva parola sull'intera vicenda. Nulla di nuovo, per carità, è già accaduto ad altri grandi imprenditori, accade purtroppo quotidianamente a tanti cittadini comuni. E' appunto l'incubo del «processo» italiano, il più kafkiano che esista. Sennonché qui c'è un problema in più, e riguarda non tanto le persone ma le aziende, sottoposte in questo modo - come già accadde dal '92 in poi, con l'avvio di Mani pulite - ad una pressione esterna formidabile, ad un'incertezza endemica paralizzante sul piano gestionale e finanziario. Di questo, soprattutto, c'era traccia nelle parole di Gianni Agnelli, che ieri sera al telefono da Parigi, oltre a confermare la sua totale fiducia per Romiti e Mattioli, commentava così la condanna: «Ho il massimo rispetto per i giudici, ma adesso dover ancora attendere uno o due gradi di giudizio non è certo un elemento di serenità per l'azienda». Il problema non è tanto la posizione dei due manager, sui quali pure d'ora in poi si concentrerà naturalmente l'attenzione, ma la vita dell'impresa in quanto tale: la sua immagine internazionale, l'orizzonte delle sue strategie industriali, la condizione psicologica dei suoi dipendenti, dal primo dirigente di Corso Marconi all'ultimo operaio entrato a Mirafiori. Va da sé che la giustizia deve fare il suo corso, e non può né deve fermarsi o farsi condizionare da tutto questo. Ma è altrettanto chiaro che, se non si esce da questo incubo infinito, a pagare il conto sarà l'economia nazionale, non solo gli uomini che la rappresentano. I quali, oltre tutto, Tangentopoli sono stati i primi a subirla, non certo a propiziarla. Massimo Giannini

Persone citate: Gianni Agnelli, Mattioli, Romiti, Silvio Berlusconi

Luoghi citati: Milano, Parigi, Tangentopoli