Clinton-Netanyahu, vertice dei misteri di Andrea Di Robilant

Clinton-Netanyahu, vertice dei misteri Non trapela nulla del lungo colloquio, il presidente Usa: ora devo sentire i palestinesi Clinton-Netanyahu, vertice dei misteri Washington: in campo la Albrightper salvare la pace WASHINGTON DAL NOSTRO CORRISPONDENTE Bill Clinton si prepara a mandare Madeleine Albright in Medio Oriente nella speranza di salvare un processo di pace ormai pericolosamente inceppato. Una decisione formale non è ancora stata presa, ma secondo fonti della Casa Bianca il Presidente si è ormai convinto che solo un coinvolgimento degli Stati Uniti ad altissimo livello salverà la fragile impalcatura costruita nella scia degli accordi di Oslo. L'orientamento di Clinton a mandare il suo segretario di Stato è emerso in occasione della visita a Washington del premier israeliano Benyamin Netanyahu. Ma il Presidente vuole prima capire se ci sono davvero le premesse per un'azione efficace della Albright. Alla fine del lungo colloquio con Netanyahu alla Casa Bianca (è durato due ore anziché una), Clinton è stato abbottonatissimo con i giornalisti: «Ho parlato a fondo con il premier israeliano, e con grande franchezza. Ora dovremo parlare con i palestinesi. Non mi chiedete di più. Sapete come vanno queste cose: più ne parlo e più rischio di mir Q lo sforzo che stiamo facen- UO). Quando Clinton e Netanyahu si sono chiusi ieri nello studio del Presidente, il clima era tutt'altro che sereno. Appena poche ore prima, il premier israeliano aveva fatto la voce grossa parlando agli esponenti di alcune associazioni ebraiche, assicurando che nulla avrebbe bloccato la costruzione del controverso insediamento di Har Homa. E aveva aggiunto, battendo i pugni: «Non lasceremo mai che Gerusalemme venga nuovamente divisa! Mai! Mai!». Dall'altro capo del mondo, alla conferenza dei Non allineati a Nuova Delhi, il presidente dell'Entità palestinese Yasser Arafat tuonava contro la decisione israeliana di procedere con i lavori a Har Homa: «E' una dichiarazione di guerra contro il processo di pace». Ma al di là delle accuse, che continuano a scambiarsi in pubblico con grande animosità, sia Netanyahu sia Arafat sembrano decisi a trovare una via d'uscita dal vortice di recriminazioni in cui sono piombati nelle ultime settimane. Ma non possono più farlo da soli e così l'amministrazione Clinton si è resa conto di non aver altra scelta: senza un suo coinvolgimento diretto, la situazione può solo peggiorare. Ma il Presidente è perfettamente consapevole dei rischi che comporta una missione della Albright, alla sua prima esperienza diretta nel campo minato mediorientale da quando è stata nominata segretario di Stato. E questo spiega l'estrema cautela di Clinton, dicono alla Casa Bianca. L'idea di mandare la Albright è venuta dopo che il Presidente aveva scartato un piano molto più ambizioso circolato nelle ultime 48 ore: superare l'impasse israelo-palestinese sponsorizzando una serie di faccia a faccia tra Netanyahu e Arafat a Camp David, la tenuta presidenziale nel Maryland. L'idea era di raggiungere un grande accordo su tutte le questioni ancora irrisolte, che sono anche le più spinose: lo status di Gerusalemme, le frontiere, il futuro dei coloni israeliani e dei rifugiati palestinesi. Era stato Netanyahu a proporre l'idea arrivando negli Stati Uniti per il suo colloquio di ieri con Clinton. E il leader israeliano aveva illustrato la sua proposta anche a re Hussein di Giordania domenica durante il loro colloquio nella clinica Mayo in Minnesota, dove il sovrano hascemita si sta sottoponendo ad alcuni esami clinici. Una delle ipotesi allo studio era quella di offrire un congelamento di sei mesi del nuovo insediamento di Har Homa in cambio di uno sforzo concentrato per arrivare ad un accordo sulle questioni ancora aperte. Ma Clinton non se l'è sentita di imbarcarsi in una tornata diplomatica così audace. «E' inutile agire in modo prematuro», ha detto. «Prima dobbiamo riuscire a rilanciare questo processo. Poi si vedrà». Andrea di Robilant G«GTbepnszpmttbcnrdsozclolarspos