SUL PONTE DI COMANDO di Enzo Bettiza

SUL PONTE DI COMANDO SUL PONTE DI COMANDO di stampa internazionali, degli istituti di studi strategici britannici ed americani, dei vertici della Nato, deil'Onu, dell'Osce e delle diplomazie dei principali Paesi membri dell'Unione Europea. Non si dimentichi, quindi, che è anzitutto italiana la responsabilità non solo tecnica, ma morale, della riuscita o del fallimento della missione in Albania. E' italiano il comando. Sarà italiano, oltre duemila soldati, il contingente più numeroso. Siederà in permanenza presso la Farnesina il segretariato politico sovrannazionale, coordinatore e sovrintendente dell'intera operazione. Nessun errore a Roma, nessuna debolezza sul campo, nessun piagnisteo emotivo verrebbero facilmente perdonati e dimenticati da un'Europa già portata a consi- derare l'Italia come terra di confusione e d'improvvisazioni disordinate. Dunque è bene che il governo, in un frangente di prova cosi difficile, senta alle sue spalle l'appoggio di una maggioranza parlamentare comprendente l'opposizione; e sarà bene che i soldati, impegnati in prima linea nella missione, resa più che mai delicata dopo l'affondamento dell'imbarcazione albanese nel Basso Adriatico, avvertano anch'essi alle loro spalle il più ampio consenso nazionale. Detto questo, vediamo i lati meno chiari e più ambigui di un'operazione che nasce, purtroppo, nel segno della fretta e di un coordinamento multinazionale intricato, complicato, esposto a scatti d'orgoglio e di competenza d'ogni tipo. Le garanzie e le indicazioni deil'Onu appaiono fin da ora quanto mai volatili e sfuggenti. Dovranno arrivare sul posto prima i soldati della cosiddetta «forza multinazionale di protezione», comandata dal generale Luciano Forlani, o dovranno prima giun¬ gervi gli aiuti umanitari? Quali dovranno essere i luoghi principali d'insediamento del contingente, Valona, Durazzo, Saranda, l'aeroporto di Tirana? L'insediamento dovrà essere simultaneo, eseguito cioè in un colpo solo, oppure scaglionato nello spazio e nel tempo? A chi toccherà la maggiore responsabilità nello scaglionamento delle forze armate, nei dispositivi di soccorso e di difesa? Agli ufficiali italiani, ai funzionari deil'Onu, a quelli dell'Osce, oppure a tutti quanti insieme? In Bosnia, i vertici deil'Onu avevano inviato un supercommissario di nazionalità nipponica che, pur scontentando tutti, aveva almeno rappresentato fisicamente sul luogo l'autorità (si fa per dire) della massima organizzazione di pace planetaria. Non risulta, finora, che l'Onu abbia fatto partire per l'Albania un commissario di pari importanza gerarchica. I francesi, che occuperanno il secondo posto nella missione, accetteranno di buon grado di eseguire le diret¬ tive di uno stato maggiore italiano? I militari greci, che non sono particolarmente amati dalla popolazione albanese, andranno d'accordo con i commilitoni turchi, che invece godono di maggiori simpatie nell'Albania a maggioranza islamica? Dopo quanto è avvenuto in Bosnia, non sono domande né insidiose né speciose. Sono domande doverose. Il pubblico deve fin d'adesso sapere che lo sbarco di una truppa straniera nell'Albania in preda al caos e al vuoto politico sarà tanto meno una passeggiata allegra, quanto più essa sarà fatalmente destinata a scontrarsi con due difficoltà: la diffidenza esterna degli albanesi sommata alle diffidenze e tensioni interne allo stesso corpo di spedizione. Inoltre, come s'è visto, l'intero congegno del meccanismo internazionale, che dovrebbe armonizzare le varie fasi e le mosse dell'intervento, è quanto mai fragile per non dire vulnerabile. Veniamo ora al punto più scabroso. Quello strettamente mili¬ tare. «Protezione», in parole più esatte, che, cosa significa? I soldati, protettori dei beni umanitari, se aggrediti dovranno rispondere o voltarsi dall'altra parte? Voltarsi dall'altra parte equivale tradire lo scopo profondo dell'operazione. Non voltarsi e rispondere, per difendere insieme la propria vita e i beni in custodia, significa farsi un nemico, aprire un conflitto sia pure limitato. Significa, in altri termini, rischiare per un'azione che non è di guerra ma di pace. Il rischio è implicito nel fatto. Sarà anche giusto non fasciarsi la testa prima di rompersela. Ma sarà altrettanto giusto non piangere sull'infortunio se questo si produrrà in una terra di per sé infortunata, sbandata, lacera, ridotta al minimo di sussistenza alimentare e di sicurezza personale. Una terra che, dopo la tragedia d'Otranto, si accinge ad accogliere i soldati italiani e gli altri con sentimenti misti d'astio e di speranza. Enzo Bettiza

Persone citate: Luciano Forlani