L'ARGONAUTA ATLANTICO CERCA LE ISOLE FANTASMA di Sabatino Moscati

CD ROM CD ROM rono in Italia ratti, pulci e marinai infetti, contaminando dapprima il porto di Messina, e poi via via gli altri porti italiani. A partire da quell'estate l'epidemia si diffuse lentamente in tutta Europa, covando sotto la cenere nei mesi invernali, quando le pulci cadono in una sorta di letargo, e riprendendo vigore ai primi caldi; impiegò tre anni per raggiungere gli estremi confini d'Europa, la Scozia e la Scandinavia, e per portar via, secondo stime correnti e quasi certamente esagerate, un terzo della popolazione europea. Più correttamente bisognerebbe dunque parlare dell'epidemia del 1347-1351, anche se il 1348 è l'anno che segnò la massima mortalità nei Paesi più popolosi e civilizzati del continente, e in cui Boccaccio vide lajaeste a Firenze e la descrisse. E' questo lo sfondo del libro di Klaus Bergdolt, La peste nera e la fine del Medioevo. Benché pubblicato in una collana dalle copertine pulp e dai titoli a effetto (già usciti, fra gli altri, La fine dei Templari, Il mistero del Sacro Graal e II segreto dei geroglifici), il libro di Bergdolt è in realtà un rispettabile lavoro di divulgazione, che descrive in dettaglio il progredire dell'epidemia da un Paese all'altro e le sue conseguenze, fra cui l'esplosione isterica di persecuzioni contro gli Ebrei, ritenuti, soprattutto in Germania, i propagatori della pestilenza. L'autore, medico di professione, si sofferma con interesse sulle teorie mediche dell'epoca, analizzando i numerosissimi Consigli contro la peste e Regimi di sanità messi alla moda dall'epidemia. Anziché liquidare con facile disprezzo le dottrine medievali, egli mostra come la teoria galenica degli umori offrisse una spiegazione in apparenza piuttosto logica del decorso della malattia; col solo difetto che i rimedi suggeriti, benché perfettamente razionali in rapporto alle premesse, erano in realtà del tutto inefficaci, o lo erano soltanto per caso e non per le ragioni ipotizzate dalle Facoltà di medicina. Q taglio del libro appare più invecchiato là dove ripropone una visione epocale e catastrofica della pestilenza, quasi che a quell'even- Sopra e a destra: particolari di due miniature del Quattrocento to, y. traumatico, si potessero attribuire tutt'insieme il declino demografico e la crisi economica del Trecento, un radicale mutamento di sensibilità e addirittura la fine del Medioevo, qualunque cosa ciò significhi. Si rischia di dimenticare che l'uomo d'allora era abituato a veder morire gli altri intorno a sé, e sapeva che la morte porta via i giovani e addirittura i bambini con la stessa frequenza degli adulti e dei vecchi; l'epidemia del 1348 confermò ciò che tutti sapevano, e che già in precedenza trovava espressione nell'arte e negli scritti dei moralisti. L'affresco di Buffalmacco nel Camposanto di Pisa, Il trionfo della Morte, ritenuto a lungo la più drammatica rappresentazione dell'impotenza dell'uomo davanti alla peste, venne completato dieci anni prima della grande epidemia. Anche sul piano economico e demografico la pest" non lasciò un'eredità a senso unico. L'epidemia, come ben notarono i contemporanei, falciò i poveri più dei ricchi, mietendo la gran parte delle sue vittime fra gli immigrati e i mendicanti che si accalcavano nei quartieri bassi delle città, e fra i braccianti miserabili delle campagne. In Inghilterra morirono solo 2 vescovi su 17 e un cavaliere dell'ordine della Giarrettiera su 25; fra tutti i re d'Europa uno solo, Alfonso X di Castiglia, cadde vittima della moria. Magra consolazione, certo, soprattutto dal punto di vista delle vittime; ma è un fatto che i sopravvissuti si ritrovarono a respirare meglio, in un mondo non più sovraffollato. Tutti quanti avevano ereditato dai parenti morti, la disoccupazione era scomparsa e i salari in aumento, e le corporazioni artigiane avevano abbreviato i periodi di apprendistato e facilitato l'accesso alle professioni. «E tale che non avea nulla si trovò ricco», osserva freddamente il cronista fiorentino Marchionne di Coppo Stefani. Quest'epidemia che regalò all'Europa il pieno impiego e consumi in crescita, com'è ben documentato ad esempio nel caso della domanda di carne da parte delle masse urbane, finisce per assomigliare stranamente a eventi più vi¬ cini a noi, calale ad esempio la Seconda Guerra Mondiale: eventi spaventosi, che comportarono un momentaneo imbarbarimento di tutti gli standard morali, e un carico atroce di sofferenze umane, ma che non si lasciarono dietro mi mondo istupidito e in declino, bensì una società formicolante di energie e d'una ritrovata voglia di vivere. Rispetto alla guerra mondiale, la peste comportò certo una mortalità immensamente più alta, ma lasciò mtatte le città e le case, le botteghe e i conti in banca; non è cinismo concludere che sepolti gli ultimi morti gli europei tornarono ai loro affari con più impegno di prima. Alessandro Barbero di Federico Peiretti LA visita virtuale alla Basilica di San Francesco in Assisi è stata organizzata in modo da permettere di scoprire ogni aspetto del grande complesso architettonico. Si può girare al suo interno, studiando i preziosi capolavori anche a distanza ravvicinata, con l'aiuto di uno zoom. Oppure si può interagire con le parti esterne degli edifici aprendo sezioni di studio dell'architettura della Basilica. Seicento fotografie e duemila legami ipertestuali permettono di soddisfare qualsiasi esigenza dello studioso d'arte o del semplice turista, aiutandoli nelle loro ricerche con un utile glossario e numerose schede tecniche storiche e artistiche come quelle, molto dettagliate, dedicate agli artisti che lavorarono ad Assisi, Cimabue, Giotto, Lorenzetti e Simone Martini. Sono inoltre a disposizione quattro video affascinanti, dedicati rispettivamente agli aspetti religiosi, storici, architettonici e artistici della Basilica. Il cd-rom è stato realizzato dall'Enel nell'ambito di una serie di iniziative battezzate «Luce per l'arte». La basilica di San Francesco in Assisi Progetti Museali Editori L. 98.000. PC multimediale e ambiente Windows. Sono richiesti 4 MB di Ram e almeno 3 MB liberi sul disco rigido. L'ARGONAUTAATLANTICO CERCA LE ISOLE FANTASMA ISOLE FANTASMA Donald S. Johnson Piemme pp. 304 L. 32.000 ISOLE FANTASMA Donald S. Johnson Piemme pp. 304 L. 32.000 AMERICANO Donald S. Johnson è forse uno degli ultimi storici della marineria che alterni gli studi a tavolino, la ridefinizione di una mappa, la verifica di un codice, con l'esperienza diretta nei luoghi che sin da ragazzo avevano acceso la sua immaginazione di argonauta: il Nord Atlantico. Cinque volte ha attraversato l'oceano, insieme al figlio Ewan, su una goletta lunga otto metri, ne ha registrato le voci tempestose, gli approdi sicuri, le tregue ingannevoli; e ha riavvertito quella sorta di ebbrezza cosmica che investe i navigatori solitari dopo settimane e settimane di paradossale prigionia in un mondo a un tempo sconfinato e monocromatico: «Cielo blu, acqua blu, entro la sottile linea dell'orizzonte, sino a quando non si tocca terra dove il verde della vegetazione o il rosso delle tegole sono così vividi che sembrano assalire i nostri sensi». Discreti e, si direbbe, prosciugati dal salmastro risultano i coinvolgimenti dell'autore, che pur potrebbero dilagare in avventurosi racconti da bestseller. Sennonché l'interesse di Johnson è involontariamente letteraI suoi veri consanguinei sono no. no. filosofi geografi cartografi mitogra fi del Medioevo e delle antiche ci viltà del Mediterraneo. Gli strumenti che maneggia riacquistano straordinarie virtù comunicative, quasi non avessero cessato di assistere uomini ardimentosi sulle rotte che si andavano inventando: portolani, sagole, bussole, clessidre, astrolabi. La passione dichiarata è una sola: disseppellire e filtrare leggende di isole mai esistite o trasfigurate o disperse che tuttavia avevano influenzato generazioni su generazioni di navigatori portoghesi spagnoli inglesi, e popolato le loro mappe. Isole fantasma, Isole erratiche che «emergevano senza causa apparente e continuavano a spostarsi come se stessero cercando uno spazio tranquillo in cui gettare l'ancora per una fissa dimora». Quante se ne contavano nell'Atlantico? Se diamo retta al geografo arabo Idrisi, ventisettemila, corrispondenti alle «tante pietre del guado attraverso il quale sarebbe stato agevole raggiungere l'Estremo Oriente». Donald S. Johnson si mette però alle spalle i calcoli di Idrisi e ci offre una rappresentanza compatibile della proliferazione insulare: l'isola dei Demoni o dei Tormentati, l'isola di Buss grottescamente venduta alla Compagnia delle Indie, l'isola di Fries praticata dai mercanti veneziani, Antilla o delle Sette Città o dei Sette Vescovi, la magica isola di San Brandano, le intercambiabili isole del Tesoro, le sfuggenti isole dei Beati, le isole Vergini connesse al martirio di Sant'Orsola... Qui Johnson, oltre a ricostruire filologicamente i passaggi della leggenda e la sua trasmutazione durante il secondo viaggio di Colombo, raddrizza la verità numerica. Undicimila le verdini che avrebbero condiviso la sorte di Orsola? Ma no. Solo undici. L'errore è contenuto in un documento che risale al 922. Un distratto copista aveva letto nel testo originario XI.M.V. (undecim martyres virgines) e aveva trascritto undecim milia virginum, favorendo il colossale equivoco. Di isole più prossime al continente ma non meno favoleggiate (le Canarie, le Azzorre) Johnson fa strage di falsi indizi; e a proposito delle Azzorre si affretta a correggere l'interpretazione del toponimo avanzata da William Babcok sulla falsariga degli studiosi arabi. Non cormorani o corvi marini sarebbero gli uccelli indicati da Idrisi, bensì astori (agor), specie di falchi che assomigliano all'aquila diffusissimi nell'arcipelago azzorriano. Circa il destino di Atlantide, l'autore invoca il silenzio scientifico. Avrà le sue ottime ragioni e non vorremmo contrariarlo. Regredendo poi nelle epoche precolombiane, nessuna meraviglia che siano i Fenici a occupare la scena centrale, mentre gli Arabi tra il X e il XIII secolo trionfano nelle connotazioni simboliche. Per essi l'Atlantico è il Grande Mare Verde delle Tenebre: qualcosa da paventare piuttosto che da solcare. Temerari sono invece alcuni esploratori della latinità che umilmente bussano alla memoria degli eruditi. Per esempio Pitea di Massalia, le cui imprese vengono salutate da Strabone, Diodoro e Plinio. Pitea parte da Cadice, costeggia l'Europa risalendo a Nord, e tocca l'Islanda. Viaggio di enorme rilevanza per l'ampiezza del percorso e per le preziose osservazioni sul territorio, sulle varianti climatiche, sui metodi di mietitura dei cereali, sull'idromele prodotto in Britannia... l pDelle isole recuperate e commentate, quella dei Demoni è probabilmente la più celebre. Si riteneva che fosse visibile all'estremità settentrionale di Terranova, infestata da spùiti maligni e da trichechi, orsi, grifoni, accomunati da un unico scopo: atterrire con mostruose grida la creatura umana. Bizzarre relazioni di viaggio (ti- BISANZIO, IMPERO D'ORO MASSICCIO pica quella di André Thevet, cappellano di Caterina de' Medici) e attendibili resoconti di spedizioni francesi cinquecentesche confluiscono nelle drammatiche vicende di Marguerite de La Roque - amante di un giovane ufficiale di bordo abbandonata per punizione nell'isola maledetta. A sua volta Marguerite de La Roque (che soprawiverà eroicamente tenendo a bada diavoli e bestie feroci con la lettura della Bibbia), diventa protagonista del sessantasettesimo racconto dell'Heptameron di Margherita di Navarca, sebbene in versione agiografica. La nobildonna sarebbe stata abbandonata alla mercè di diavoli e trichechi non già per espiare un amore illecito, ma perché aveva supplicato il capitano della nave di non separarla dal marito, nonostante che il marito fosse un «incallito traditore». La letteratura, almeno in questa circostanza, chiude solennemente il cerchio e concede un ancoraggio valido per la realtà e per la finzione. Non altrettanto fortunate le isole superstiti della fabula oceanica che continuano a emergere, a vagare, a inabissarsi, senza il plauso o il rammarico di scrittori e fruitori. Fatto salvo, beninteso, il nostro storiografo che si affanna a identificarle, a rianimarle e a tenerle ancora per un attimo in gioco. Giuseppe Cassieri I BIZANTINI Gerhard Herm Garzanti pp. 342 L 19.000. I BIZANTINI Gerhard Herm Garzanti pp. 342 L 19.000. HI non ricorda Corani, il grande divulgatore dell' archeologia? Giornalista acuto e sagace, aveva compreso che la ricerca del passato è un'appassionante avventura di uomini alla ricerca dell'ignoto. A partire dagli Anni Cinquanta i suoi libri si diffusero in tutto il mondo, trovando grande successo nel pubblico e anche (fatto che potrebbe sorprendere) tra i più severi archeologi. Tale era, infatti, Ranuccio Bianclii Bandinelli, che scrisse un'ampia prefazione all'edizione italiana di Civiltà sepolte. Ora Ceram ha un successore, anch'egli tedesco, che si chiama Gerhard Herm e al quale si deve il libro I Bizantini tradotto da da Garzanti (insieme a L'avventura dei Fenici e II mistero dei Celti]. Ma Herm, anch'egli giornalista, è molto diverso da Ceram: mentre quest'ultimo privilegiava l'avventura umana degli archeologi, Herm punta alla vita dei popoli, ai loro aspetti più illuminanti e curiosi. Dei Bizantini, dunque, l'autore non manca di curare l'inquadramento storico, rievocando i quasi mille anni di vita di un impero che, dopo la caduta di quello romano, segnò l'mcontro tra Oriente e Occidente fino al sorgere della civiltà moderna. Ma, ciò fatto, Herm si concentra su ciò che più impressiona il lettore moderno. Lo indica del resto il titolo originale dell'opera, che in tedesco dice «Lucente di porpora e d'oro». sfarzo delle cerimonie bizantine e la Chiesa russa è la più diretta e fedele erede di quella che per molti secoli affascinò l'Oriente. Infine le curiosità specifiche, an Ma lasciamo parlare l'autore: «Oro, oro e ancora oro: ecco l'elemento caratterizzante dei sovrani di Costantinopoli. Su di esso spiccava il rosso della porpora e il bianco di altre stoffe rare. Aureo era il tavolo su cui mangiava l'imperatore, durante i grandi banchetti, mentre se ne stava in disparte, sdraiato su purpurei cuscini...». Il racconto è fedele, tanto che lo si ritrova analogo negli scrittori del tempo, come quel Giovanni Crisostomo che descrive l'imperatore Arcadio con la corona aurea e le vesti dai ricami aurei su un trono d'oro massiccio. Il richiamo al nostro tempo è un'altra caratteristica di Herm. E così Bisanzio trova il suo riscontro nella Mosca degli zar, lo splendore del palazzo imperiale di Costantinopoli in quello del Cremlino. Ancor oggi, il rito ortodosso ripete lo sfarzo delle cerimonie bizantine e la Chiesa russa è la più diretta e fedele erede di quella che per molti secoli affascinò l'Oriente. Infine le curiosità specifiche, anch'esse tali da attrarre il lettore moderno. «Bizantino», nel nostro linguaggio, è sinonimo di cavilloso, pedante, servile, subdolo, perfido, doppio, ipocrita... C'è un motivo, naturalmente; e sta nelle cerimonie complesse, nei discorsi retorici, insomma nel prevalere della forma sulla sostanza, che il nostro mondo più rapido e concreto è abituato a cercare senza troppi veli ed orpelli. Ma di quel mondo, cosa rimane? Una vena di poesia illumina la conclusione del libro, che descrive l'odierna erede di Bisanzio, Istanbul, «con segni di morte, senza più splendore, con vie polverose e palazzi diroccati. Soltanto quando il tramonto tinge il cielo di rame, ricompare lo spento fantasma di un sogno di grandezza e di dominio». Sabatino Moscati