«Sì sono gli orecchini della mia Milena» di Francesco Grignetti

Tunisi, dopo due anni ritrovato il cadavere: uccisa per aver rifiutato le avances di un giovane vicino Tunisi, dopo due anni ritrovato il cadavere: uccisa per aver rifiutato le avances di un giovane vicino «Sì, sono gli orecchini della mia Milena» L'urlo della madre chiude il mistero della ragazza scomparsa TUNISI DAL NOSTRO INVIATO Tradita da un piccolo mondo antico, dove si andava in bicicletta e tutti erano amici. Tradita da uno spasimante, che le aveva lasciato intendere di essere uno «vero» e invece «con me voleva solo divertirsi», come scrisse sul suo diario. In definitiva, tradita dalla Tunisia, terra esotica e bellissima, apparentemente moderna e occidentale, ma invincibilmente araba. Se fosse stata viva, oggi Milena Bianchi avrebbe 22 anni e mezzo. Parlerebbe benissimo il francese, che era venuta qui a studiare. E probabilmente, tornata nella sua terra di Bassano del Grappa, non farebbe altro che rievocare i suoi lunghi mesi vissuti al di là del Mediterraneo. Invece tornerà in una bara su un aereo militare, dopo essere stata strangolata da un diciottenne vendicativo, mezza bruciata e sepolta nel greto di un fiume asciutto. Un assassino in casa L'assassino di Milena si chiama Mounir, diciannove anni, apprendista operaio. Il cognome nemmeno importa. Vive a Nabeul, con una madre anziana e mozzo sorda, un padre all'estero. Vive a quattrocento metri dalla villetta dei Viotto, gli amici di famiglia che ospitavano Milena. «L'assassino era dietro casa. Forse il caso si poteva risolvere prima», non fa che ripetere un padre disperato, Perdilo Bianchi. Il padre, già. Pover'uomo che affronta i giornalisti e vorrebbe gridare tutta la sua rabbia, il suo dolore, e invece si limita a dire: «Se avessero usato tre cani poliziotto, il cadavere l'avrebbero trovato subito. Non dopo un anno e mezzo. Ci hanno fatto attendere fino al Venerdì Santo». Papà Bianchi è reduce dalla prova più dura che a un uomo la sorte possa riservare. E' entrato all'obitorio per riconoscere il cadavere della figlia. Ha visto un anello, un crocefisso, un paio di orecchini su un corpo semibruciato e distrutto da un anno di interramento. «Sì, sono di Milena», s'è limitato a dire. La moglie, mamma Gilda, non se l'è sentita di entrare. Quando poi lui è uscito, con quella modesta chincaglieria tra le mani, le e uscito un urlo di dolore. Era Milena. «Sì, lo ammetto - racconta Pertillo Bianchi - fino all'ultimo abbiamo sperato che non fosse lei. Fino all'altra sera. Avevamo avuto delle segnalazioni, c'era chi ci diceva che era viva. Ci credevamo. Ci volevamo credere». Gli sciacalli L'altra faccia miserabile di questa storia sono i profittatori: gente che s'è inserita sul dolore di una famiglia e ha speculato. Un presunto intermediario di Pesaro, una chiromante italofrancese, alcuni tunisini. Gente che ha raccontato storie. E ha preteso soldi. I Bianchi erano gente disperata. Gli si può dare torto se hanno voluto credere a storie palesemente inverosimili? «Io lo so che qualche volta abbiamo rotto. Che qualche volta abbiamo disturbato. Ma senza la pressione dei mass media, pensate che le indagini sarebbero andate avanti a lungo?», dice ancora il padre. E l'onorevole Elisa Pozza Tasca, che questa storia l'ha presa a cuore, e che nel frattempo è diventata amica di famiglia: «Se non ci fosse stato il comitato pro-Milena, sarebbe stata un'altra storia. Qualche mese fa lo stesso capo della polizia tunisina me lo confessò, che loro avevano all'inizio sottovalutato la storia, e che avrebbero cambiato uomini e mezzi. Oggi vedo i risultati. E esco più serena dall'incontro con il ministro dell'Interno tunisino». L'incontro misterioso La polizia italiana e quella tunisina hanno collaborato per davvero. Racconta il questore Nicola Simone, che ha fatto la spola con Tunisi: «Quando ci siamo accorti che tutte le piste erano senza esito, abbiamo ricominciato da zero. I tu- nisini interrogando i loro testimoni, noi i nostri. L'amica del cuore di Milena, Elisa Viotto, ha finalmente collaborato con quei particolari di cui non era stata troppo prodiga all'inizio. E' venuto fuori un quadro che mi ricordava le vacanze della mia giovinezza, alla fine degli Anni 50, quando arrivavano le svedesi e si formavano comitive di vitelloni che pensavano solo al corteggiamento». Un po' il diario di Milena, insomma, un po' i racconti di amici e amiche, è venuta fuori questa Nabeul che è un centro di vacanze estive, dove le due ragazze - Milena ed Elisa - intrecciavano i primi flirt, studiavano, si divertivano con passatempi semplici: la bicicletta, la spiaggia, la discoteca, la sala giochi. Attorno alle due ragazze italiane, passata l'estate, s'era concentrata l'attenzione dei vitel- Ioni locali. Elisa si era fidanzata. Milena no. Però aveva avuto qualche piccolo flirt. E uno dei suoi spasimanti, un tal Mounir, con il quale aveva «filato» qualche giorno a luglio, per poi troncare decisamente, l'aveva presa male. «Io racconta il padre di Milena - l'avevo detto anche alla polizia che a me questo Mounir non m'era piaciuto troppo. L'avevo conosciuto quando ero venuto qui in vacanza, ad agosto. Uno con strane maniere, che si era comportato male con mia figlia. Piccoli fatti, niente di che. Però le faceva i dispetti. Una volta le bucava la ruota. Un'altra volta se la prendeva con la scusa di ripararla e non la voleva più restituire. Cose da ragazzi...». Altro che ragazzo. Mounir covava dentro un sentimento poco chiaro. Un sentimento cattivo. Così, in buona sostanza, ha raccontato ai poliziotti tunisini che lo interrogavano: «Quel pomeriggio del 23 novembre, vidi dalla finestra Elisa Viotto che andava in bicicletta. Aspettai. Dopo un quarto d'ora, o poco di più, vidi Milena. Scesi in strada e la fermai. Le dissi che in casa c'era mia sorella e che poteva entrare tranquillamente. Lei lasciò la bicicletta appoggiata al cancello». A questo punto, il racconto di Mounir si fa meno chiaro. Però poco importa. E' facile immaginare: qualche avance troppo esplicita, discussione, lite, colluttazione. Lui racconta che la sbatté verso un muro, che lei cominciò a perdere sangue dal naso, che lui perse la testa e la soffocò. I poliziotti storcono un po' il naso. Si vedrà. Un corpo ingombrante Mounir, dopo l'omicidio, si preoccupa di far sparire le tracce. Ci riesce fin troppo bene. Primo, prende la bicicletta e la porta in periferia, abbandonandola contro un muro. A lungo il commissariato di Nabeul prese questa storia della bicicletta come prova di un rapimento venuto da fuori. Addirittura si parlò di pista algerina, libica, mauritana. «Per la verità, il ministero dell'Interno non ha mai accreditato la storia del rapimento estero», dice Simone. Ci mancava solo che il governo dichiarasse che non controllava il suo territorio. Secondo, c'era da far sparire il cadavere. Mounir - sempre secondo le sue dichiarazioni avrebbe atteso la notte, caricando il corpo su una Vespa, e portandolo fuori città. Lo seppellirà tre chilometri a nord, verso il mare, nel greto di un fiume asciutto, uno ouad. Non soddisfatto, tornerà sul posto due giorni dopo, e sposterà il corpo in una buca più profonda. Non prima di aver tentato di dar fuoco al corpo, ma senza convinzione, temendo di attirare l'attenzione. E però, come nei migliori romanzi gialli, Mounir non riuscirà più a vivere senza passare su quel posto maledetto. Ci va a ripetizione. Forse per controllare, forse spinto da rimorso. Chissà. Comunque tanto è bastato perché qualcuno si insospettisse e lo guardasse con occhi diversi. Era lui. «Per fortuna che aveva già compiuto diciotto anni», si limita a sibilare papà Bianchi, a fine discussione. Francesco Grignetti L'accusa del padre: «Se la polizia locale si fosse impegnata di più non avremmo passato mesi a sperare» Nel diario la ragazza aveva scritto: «Non mi fido di Mounir vuole solo divertirsi» l naso. Si vedrà. Francesco Grignetti Sopra Gilda Milani, la madre di Milena, assieme al nonno della ragazza, fotografati ieri mattina a Fiumicino in partenza per Tunisi A destra Milena Bianchi