«Lo Stato trattò con la mafia»

Caselli: 1600 pentiti non sono troppi di fronte a 20 mila affiliati Caselli: 1600 pentiti non sono troppi di fronte a 20 mila affiliati «Lo Stato trattò con la mafia» Brusca: contatti per fermare le stragi CALTANISETTA. Dopo le stragi di Capaci e via D'Amelio Riina presentò il conto ad esponenti politici, e qualcuno «si fece vivo». Ovvero: una trattativa tra Stato e mafia perfermarela violenza stragista di Cosa nostra. E ancora: la decisione di uccidere Giovanni Falcone non sarebbe stata presa solo da Totò Riina, ma anche dai cugini Ignazio e Nino Salvo, i potenti esattori siciliani. Le rivelazioni sono contenute nei verbali di interrogatorio di Giovanni Brusca, depositati ieri dal pm Luca Tescaroli alla corte d'assise di Caltanissetta dove si svolge il processo per la strage di Capaci. «Falcone era un killer di Stato, anche per questo bisognava ucciderlo», dice Brusca, che oggi testimonierà e che avrebbe ammesso di aver azionato il telecomando che causò la strage di Capaci. Il boss avrebbe anche svelato i motivi che portarono la Cupola a decidere il massacro e ha fatto i nomi dei componenti del commando. Brusca avrebbe detto che Falcone doveva morire perché sospettato di avere inviato in Sicilia, nell'estate '89, il pentito Salvatore Contorno, per «stanare e uccidere i latitanti». Ancora secondo il boss, Falcone doveva essere ucciso a Palermo nonostante fosse più semplice colpirlo a Roma. «Cosa Nostra aveva deciso di uccidere Falcone già nell'82 - ha sottoscritto a verbale Brusca - la sua fine era segnata. A deciderlo era stato Riina assieme ai cugini Salvo». Il boss ha anche parlato di un «intervento» che sarebbe stato fatto da Vito Ciancimino per trasferire Falcone a Roma, «ma Riina aveva detto che anche se finiva in un ufficio della capitale la sua sorte era segnata». Secondo Brusca, Cosa Nostra avrebbe deciso di uccidere Salvo Lima e Ignazio Salvo nell'87, prima delle stragi di via D'Amelio e Capaci. Ha parlato di una commissione ristretta della Cupola formata da lui stesso, Riina, Raffaele Ganci e Salvatore Biondino. Dei collaboratori di giustizia che si avvalgono della facoltà di non rispondere in dibattimento ha parla to ieri Gian Carlo Caselli, procura tore di Palermo, rispondendo ad una domanda del senatore di An Giuseppe Valentino. Caselli parteci pava a Roma ad una tavola rotonda sul tema della giustizia organizzata da An. E ha risposto: «Non stiamo avviandoci verso un rimedio che è peggiore del male?». Caselli ha spie gato di essere d'accordo su quanto previsto dal disegno di legge del governo: «Le funzioni amministrati ve, come la risoluzione del contrat to di protezione stipulato con lo Stato, mi sembrano più che suffi denti. Cosa succederebbe invece se, come prevede la proposta di legge in discussione presso la commissione Giustizia del Senato, non fossero più utilizzabili le dichiarazioni rese dal collaboratore anche durante le indagini preliminari?». Il procuratore si è detto convinto che in tal caso «il mafioso accusato dal pentito userebbe tutti gli strumenti a sua disposizione per impe¬ dire al collaboratore di rispondere in dibattimento». Parafrasando Falcone, Caselli ha poi sottolineato che i pentiti «non sono temporali fuori stagione, ma il risultato della lotta dello Stato contro la criminalità organizzata. Rispetto ad un esercito di 18-20 mila affiliati, 1600 collaboratori non mi sembrano troppi». [r. cri.] L'ex boss: il delitto Falcone fu deciso nell'82 da Totò Riina e i cugini Salvo Giovanni Brusca Oggi testimonia nell'aula bunker di Caltanissetta