Nostalgia l'equivoco italiano di Stefano Bartezzaghi
DISCUSSIONE. «Anima mia» ha riscoperto gli Anni 70: può succedere la stessa cosa con i 90? DISCUSSIONE. «Anima mia» ha riscoperto gli Anni 70: può succedere la stessa cosa con i 90? Nostalgia, l'equivoco italiano v Perché ci «mancano» Orietta Berti e Furia N seguito al successo di Anima mia, la trasmissione in cui Fabio Fazio ha preso a un piccolo I grande amo Claudio Ba- glioni, sono incominciate due cose, entrambe parecchio italiane: un dibattito sulla «nostalgia» e un gioco su ciò che verrà ricordato degli anni che viviamo. Essendo stato consulente e complice degli autori (Fazio, Galeotti, Labranca, Martelli e Posani), non so se la mia posizione sia quella giusta per intervenire. Fortunatamente non si tratta di decidere meriti e demeriti della trasmissione, giudizio che lascio volenT iori ai critici. Il problema è invece quello della nostalgia: perché non si butta via niente degli Anni Settanta? E' possibile avere nostalgia perfino di Orietta Berti? Si. Anima mia è finita da meno di due settimane, ma io ho già una grande nostalgia di Oriettona, il cui buon umore è tanto incrollabile quanto contagioso. Questo, però, sul piano personale. Sul piano generale, mi ha molto stupito vedere che alcuni coglievano un aspetto nostalgico in Anima mia. «Nostalgia» sta diventando un'etichetta un po' troppo appiccicosa: si attacca anche sulle superliei refrattarie. Se basta rievocare il passato per passare da nostalgici, allora siamo fritti. Michele Mari ha registrato nella straordinaria Filologia dell'anfibio le sue memorie del servizio militare: non credo che provi nostalgia per l'evento rievocato. Come il servizio militare, così la Rai di Bernabei e quant'altro è stato ricordato da Anima mia. Il massimo della nostalgia è «la nostra canzone», le note che fanno trasalire, cantate dalla stessa voce, nella stessa identica versione: l'opera di consumo nell'epoca della sua inconsumabilità tecnica. Ad Anima mia tutte le canzoni venivano riarrangiate, rese estranee a sé e alla nostalgia di se che ognuna di esse trasporta. Così anche per i personaggi: Silvan era Silvan di oggi, senza confronto con il bianco e nero del Silvan giovane; Pippi non era il fantasma (l'anima) della Pippi di allora ma era la vera e sostanziale icona della signora che oggi è diventata quell'attrice; il comandante Kirk di Star Trek era un tipo anziano e un po' sovreccitato dalla circostanza. La modalità della trasmissione non era il trasalimento ma l'esultanza della riscoperta nel nuovo contesto. Lo scopo non era il sospiro ma il sorriso. La memoria presa per nostalgia? E' possibile, e anzi è già successo a Proust e Fellini, e dunque Fabio Fazio potrebbe anche consolarsi. Ma poi memoria e nostalgia di cosa? Il gioco di immaginare quali cose resteranno degli Anni Novanta ci dimostra che non c'è nulla di lineare. La generazione di chi è stato giovane negli Anni Settanta è stata la prima generazione cresciuta con la televisio¬ ne; con quella televisione. E' stata un pilastro della nostra educazione, del pilastro avendo innanzitutto la consistenza. Erano anni di successi totalitari. La differenza fra la Carrà di Canzonissima e la Carrà di Carràmba che sorpresa è che Canzonissima aveva venticinque milioni di spettatori, e nessun concorrente, nessun contomo, nessun fronzolo. Ultraconcorrenziali, ipercontestualizzati, superstratificati, gli Anni Novanta non producono mito: in compenso producono «mitico» in grande quantità. Il mito sarebbe caratterizzato dall'insorgenza pura e incontaminata, l'evidenza assoluta, l'inconsapevolezza di sé. Il mitico si presenta completo di istruzioni per l'uso: è portato a spiegarsi, a raccontarsi, a storicizzarsi. E' un'altra concezione del «personaggio». La popolarità oggi non esclude (come faceva, e categoricamente, allora) ma anzi incoraggia i dubbi su se stessi, e così sappiamo tutto del percorso tortuoso che ha portato Lorenzone Jovanotti dall'adolescenza molestamente goliardica alla pensosa giovinezza; tutto delle giravolte esistenziali di Albona Panetti, tutto quel che cruccia di Robertone Baggio... In merito a Sabinona Ciuffini o a Furia cavallo del West allora si sapeva meno del desiderato, e questo li poneva sotto l'ala, l'alone del mito. Il mitico invece parla incessantemente, rilascia interviste, e spiega 1° condizioni del proprio succes. , per come le ha capite. Il mitico infine ha un agente, che può venire contattato per partecipazioni a raduni e convention (pagandoli il giusto, ci vanno tutti: da Natalia Estrada a Henry Kissinger). Sono cose umane, ci mancherebbe; ma le cose umane (lo dice la parola) non fanno bene all'aura e all'aureola. Cosa vorrebbe essere ogni intervista a una star? «Il mito visto da vicino». Il mitico è esattamente il mito senza distanza. Si può dirlo anche senza un briciolo di nostalgia per la televisione di allora, e preferendo il Baglioni che oggi si mette in gioco allo scontrosissimo aspirante mito che incideva hit sentimentali. Baglioni è andato personalmente a infrangere l'equivoco della propria leggenda. Lo stesso, in altro modo, lo fa Francesco Guccini, che dopo il passaggio del suo arrangiatore Vince Tempera ad Anima mia canta «Ufo Robot» nei suoi concerti. Salvarsi l'anima con l'ironia? Lo star system funziona assai meglio con il mitico che con il mito: il mito impone le sue condizioni, che sono sempre diseconomiche (di Baggio si dice che sia un «lusso» per una squadra). Un possibile mito o accetta la riduzione a mitico o ci scherza sopra; o si mette in discussione o si mette in gioco. In tutti i casi, nessuna nostalgia. Come per gli eroi di Brecht, meno miti ci sono, meglio è. Comunque vada, Oriettona non perderà il suo - davvero leggendario - buon umore. Stefano Bartezzaghi
Luoghi citati: Sabinona Ciuffini
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