Tirano, spari e marce della pace di Vincenzo Tessandori

Tirano, spari e marce della pace Tirano, spari e marce della pace Berisba non molla, a Durazzo assalto al porto DURAZZO DAL NOSTRO INVIATO «Scusa, signore, scusa. Sai quando arriva la nave per l'Italia?». Quel pigolìo ti colpis'.o più delle cento voci urlanti, perché è così fragile, così struggente. Il bimbo è uno scricciolo, e anche suo padre è minuto e timido. Con i loro abiti lindi, il sorriso triste, gli occhi ancora colmi di speranza, sembrano due fuscelli finiti in un gorgo immenso. I volti della folla sembrano così uguali, eppure sono tutti diversi, volti disperati, furiosi, rassegnati, violenti, aggressivi. Tutti guardano là, verso l'orizzonte, e invidiano quei quaranta che sono su quei due gusci che scompaiono dietro la diga. «Quelli, almeno, sono partiti per l'Italia», ti dicono. Le 14 di ieri, e il giorno appare interminabile. Le prime ore sono state drammatiche, in cinquemila, ammassati sulle banchine, parevano disposti a tutto pur di imbarcarsi per Lamerica. E la polizia ha sparato in aria, e forse non soltanto al cielo. Ora aspettano qui sulla banchina del porto di Durazzo di veder spuntare dietro alla diga foranea la sagoma di un traghetto, di un battello qualsiasi. Mario Celginna ha 12 anni e ne dimostra 8. «Lo sai quando arriva la nave?». Non lo so, non lo sa nessuno quando arriverà. Non ci sono navi, nel porto, si scorge il profilo di alcune, laggiù alla fonda. «Parla con lui, che parla bene l'italiano», dice il padre, che si chiama Amhed e fa il muratore e per un anno ha lavorato in Italia, ad Acquaviva e poi a Grottammare. Mario neppure lo vede l'orizzonte, così piccolo, sono tutti più alti di lui e tutti disperati come lui. «Vogliamo andar via perché qui c'è la guerra», spiega. ((Aspettiamo da tre giorni, non ce ne andremo. Ma fra una settimana la gente qui si mangerà l'ima con l'altra». Dice proprio così, e non riesci a capire dove l'abbia colta un'idea tanto orribile. La sbarra bianca e rossa all'ingresso del Porti Detor Durres è piegata, la costruzione a due piani dov'erano gli uffici amministrativi si consuma ancora in un rogo appiccato chissà da chi l'altro giorno. Il chiosco della dogana è un guscio vuoto. In mezzo alla spianata, capovolta, la carcassa di un Ducato giallo: si sono portati via il volante, il motore, i sedili, i vetri, tutto. Il muro di cinta è segnato dal fumo dei fuochi che la gente accende la notte quando il freddo si fa pungente. Quattro, forse cinquemila, accorsi da ogni angolo dell'Albania «per fuggire la guerra», spiegano. Giovani dall'espressione ribalda, altri dai volti rassegnati, donne che non riesci a capire se siano belle o brutte, giovani o mature. Si aggirano per le bandirne a gruppi e come mi avvicino ti stringono, ti raccontano, ti spiegano, e non importa se molti parlano soltanto la loro lingua perché la disperazione la capisci lo stesso. «La nave, quando arriva la nave?». Fissano lontano, e laggiù ci sono due vascelli da guerra americani e in alto uno sciame di elicotteri, e lo sanno, quelli in attesa qui, che non potranno mai salirci, su quelle navi. E' la seconda ondata, questa, e la polizia rimane lontano, ma dall'altro giorno, raccontano, in mezzo alla gente si infilano uomini col Kalashnikov e il volto coperto dal passamontagna, quelli delle squadre segrete. Sparano, spesso in alto. Ma due giorni fa la televisione greca ha lanciato la notizia che, per evitare l'assalto a un mercantile del Pireo, i poliziotti avevano ucciso quattro uomini. E anche ieri mattina, raccontano qui, la polizia ha fatto strage: sei morti. Ma al Pranimi Urgjenca dell'ospedale civile, il medico di guardia, Lefter Sallata, 43 anni, racconta che, in tutta la mattina, sono arrivati due feriti. «Per la dinamite». Un attentato? «No, pescavano con la dinamite». E neppure l'altro giorno erano arrivati quei quattro uccisi. Ma perché parlano di tanti morti, dottore? «Perché da noi c'è la mania di raccontare bugie: l'abbiamo un po' ereditata, questa mania». E da chi? «Dai cinquanta anni...». Ma al porto che cosa è successo? «Ci sono stato venerdì e ho visto un grande furto collettivo di farina». Ma ieri, dal fondo del viale che dal porto sale al Laudi Dermerena, il museo, la gente usciva ordinata con grossi pani a cassetta sotto braccio. Il pronto soccorso è m un decrepito stabile che trasuda umidità, le scale sbrecciate e le finestre coi vetri rotti. L'ambulanza in attesa nel cortile sembra l'unica cosa non cadente: sulla carrozzeria si legge che è un «Dono della Fraternità di Misericordia di Corsagna, Lucca». Quando tomo sulla banchina e il sole è già basso, Orges, che ha 16 anni, e Miko, che ne ha 15, mi afferrano per un braccio. Li guardo negli occhi e mi domando da quanto non sorridono. E loro dicono: «Non c'è speranza, qui in Albania. Siamo destmati tutti a morire». Miko, se il traghetto non arriva? «Rimango qui, a crepare. Ma l'Italia non ci può abbandonare». Ieri sera un ufficiale di polizia è stato ucciso in centro in uno scontro a fuoco. L'incidente ha fatto aumentare la tensione. I colleghi della vittima hanno percorso le vie della città portando sulle spalle il corpo e sparando in aria. Le tenebre, a Tirana, vengono annunciate dalle raffiche, ma ormai tutti ci hanno fatto l'abitudine. E in mattinata, in piazza Scanderbeg si era svolta una manifestazione di giovani, organizzata dalla «Fondazione Scanderbeg» e dagli «Italianisti di Albania». Erano in tremila, molti stringevano in pugno fiori bianchi d'arancio e anche rose di seta, e fiori sono stati infilati nelle canne dei mitra e sotto i tergicristallo delle auto della polizia. «Lasciate le armi», ripetono quei giovani, «Pace, pace», «Al¬ bania, ti voglio bene». E poi tutti insieme l'inno nazionale, e slogan per il governo, per il premier, che si chiama Bashkim e Bashkim vuole dire «unità». Così la gente ripete: «Bashkim unisce l'Albania». E' giorno di lutto, e la bandiera rossa con l'aquila a due teste garrisce a metà pennone, lì in mezzo alla piazza. La gente si inginocchia, perché i morti sono tanti e vanno ricordati, e la foto di Klodiana Lase, tenuta alta da un ragazzo, è come un atto d'accusa. Lei aveva 17 anni, l'ha uccisa l'altro giorno Ilir, che di anni ne ha 9 e giocava con un Kalashnikov portato da qualcuno in casa sua. Rimbalzano notizie di aiuti, e Patrizio Ciu, presidente della Fondazione Scanderbeg, ammonisce che dovranno essere «non umanitari ma umani». E' giorno di lutto, ma pure d'incertezza, d'attesa. Patos Nano, gran leader dei socialisti, arrestato tre anni fa, da ieri è ufficialmente libero per amnistia decisa dal presidente Sali Berisha, e ora a lui guardano in parecchi, anche quelli che sognano un ritorno al passato. A Valona vorrebbero organizzare una specie di guardia nazionale della «libera repubblica», la quale repubblica, per la verità, è ormai un po' meno libera da quando è stato creato il governo di coalizione. A Nord, oltre Scutari, e a Sud, al di là di Kavaja, le strade sono battute da briganti che chiedono il pedaggio o semplicemente rapinano. Da una fabbrica di Fjer qualcuno ha rubato quattro mattonelle di plastica di dieci centimetri per dieci: contengono materiale radioattivo. Ma oggi è già un altro giorno. Vincenzo Tessandori Nella capitale in piazza Scanderbeg tremila giovani marciano per chiedere il ritorno alla normalità A Fjer rubate quattro mattonelle radioattive Alcuni albanesi su un autobus attendono di partire da Brindisi verso i posti di accoglienza nelle Marche e in Abruzzo

Persone citate: Acquaviva, Bashkim, Mario Celginna, Orges, Patrizio Ciu, Sali Berisha