Torna Dacia Maraini con un romanzo e una smagliante seconda giovinezza di Dacia Maraini

CAFFÉ' LETTERARI CAFFÉ' LETTERARI Torna Dacia Maraini con un romanzo e una smagliante seconda giovinezza SE cercate nelle biblioteche cittadine, centrali o decentrate, un libro di narrativa scritto da Dacia Marami, avete poche possibilità di trovarlo. E non perché i bibliotecari non abbiano aggiornato il catalogo : semplicemente, da qualche mese a questa parte, tutti ne fanno forsennata richiesta. Per l'autrice di «Marianna Ucrìa», è una seconda giovinezza : qualcuno tra i suoi amici più cari, e di antica data, parla addirittura - citando Foscolo - di «amica risanata». Sì, perché la fine del 1996 aveva sorpreso la scrittrice romana con un brutto regalo, un incidente stradale, una caduta dalla bici che rischiava di essere sintomo di una sopraggiunta stanchezza - dopo tante battaglie. Invece, riecco la Maraini di sempre: a Torino, lunedì 17 marzo (ore 15) ospite dei Caffè Letterari dell'Unione Industriale (programma stilato in collaborazione con le librerie Campus, Fògola e Luxemburg). Incontro condotto da Alberto Sinigagha, responsabile delle pagine culturali della Stampa, che ha intervistato lungamente la Maraini per Radio Tre, in occasione di una doppia puntata di «Italiani a venire», la trasmissione che ogni domenica alle 15 porta nelle case di quanti non ascoltano il calcio un po' di buone notizie culturali. Intervista sorprendente per vitalità, che prelude all'appuntamento torinese anche in senso letterario: la Maraini ha infatti raccontato e commentato tutta la sua produzione artistica, rivendicando non solo la qualità dei romanzi - rispettati dai critici e molto apprezzati dal pubblico - ma anche il valore della sua poesia e del suo teatro. Nulla ha detto invece, di «Dolce per sé», il nuovo romanzo, edito come tutta la sua produzione recente da Rizzoli, e in arrivo in libreria a fine mese. Lunedì si potrà forse strappare qualche notizia in più; ma il momento è propizio per sottolineare il ruolo di primo piano della scrittrice in una società letteraria che l'ha accolta nel 1963, quando apparve «L'età del malessere», esordio forte e provocatorio, come ombra di Alberto Moravia. Certo, tra quel libro e «Gli indifferenti» (pubblicato ben 35 anni prima) c'erano e restano forti affinità; ma lo sti¬ le non era un surrogato di quello moraviano, bensì una cellula sonda e autonoma di quanto la Maraini avrebbe prodotto in seguito. Ripubblicato di recente negli Einaudi Tascabili, «L'età del malessere» ha come protagonista Enrica, che è un po' la capostipite delle donne cercate e cresciute all'ombra della Maraini scrittrice. Persino in Marianna Ucria (il libro, grazie al film di Roberto Faenza, è tornato in vetta alle classifiche in edizione tascabile) un po' dello spirito inquieto di Enrica permane. Certo, la consapevolezza della scrittura è negli anni diventata dominante: e chi ama questa scrittrice popolare, ma mai per questo scaltra o sciatta, o arrendevole alle mode, bisogna ricordare che martedì 18 marzo, su Rai Due (alle 10 del mattino!), comincia anche una sua trasmissione televisiva, dal titolo «Io scrivo, tu scrivi», in cui tratterà il tema della scrittura chiacchierando con gente comune. Che - apprezzando o meno il suo modello - ci dirà cosa chiede alla letteratura. Una bella idea, anche questa. Paolo Verri stro divenire. Abbiamo deciso che ciò che tocchiamo con le mani è sempre meno vero, meno buono, meno bello di ciò che ci produciamo con l'intelletto. Ci siamo fabbricati immagini, suoni altri dalla vista e dall'ascolto di noi stessi, abbiamo ideato rappresentazioni o doppi di noi che sarebbero più perfetti di te e di me, presenti l'uno all'altra. Abbiamo immaginato riproduzioni di uomini e di donne che ci hanno esiliati da noi. Sottratti al nostro avvicinamento, al toccare fra noi: con gli occhi, la voce, le mani, la pelle, gli odori. Ci siamo cercati fuori di noi, diversi da noi. Ci siamo allontanati l'uno dall'altro, desiderando stringersi. Aspirando all'altro come a un ideale, l'abbiamo supposto dove non poteva trovarsi: nell'astrazione di un'idea, nella perfezione di un modello, nella distanza di un'idealizzazione, nella piattezza di un'immagine, nell'insensibilità di una cosa morta... Non abbiamo pensato che l'ideale potesse corrispondere al mistero di un'intenzione che abita l'altro, rendendolo desiderabile. Abbiamo situato il motivo dell'incanto al di là dell'altro, fuori di lui, riducendolo a un oggetto di inclinazione, a causa di sensazioni, a un'immagine seducente, a una rappresentazione affascinante, senza immaginarlo come un mistero da interrogare, da contemplare, da abbracciare, e non da cercare nell'ai di là. A poco a poco abbiamo perso l'abitudine di guardarci, di guardarci, di ascoltarci, di toccarci, di percepirci. Guardavamo altrove o restavamo nella notte dicendo: ti amo. Luce Irigaray

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