I ribozimi contro le cellule maligne

I ribozimi contro le cellule maligne I ribozimi contro le cellule maligne Si provano in Usa enzimi sintetici a basso costo rebbe così grande da non poter più stare nel corpo. E allora? Semplice, basta spegnere la ricezione dell'ordine. Ma se l'interruttore non funziona? La conseguenza è il cancro del fegato, spiega Walter Grigioni, su «Hepatology». Alcuni pazienti con cirrosi epatica, seguiti per anni, hanno sviluppato un tumore del fegato. Le cellule maligne continuavano a replicarsi perché avevano il recettore per Hgf «acceso» e per di più ad un volume tanto più alto quanto maggiore era il grado di malignità delle cellule del cancro. Si potè valutare il «volume» della ricezione in base alla quantità di recettori presenti sulla superficie degli epatociti ammalati, e il grado di malignità in base a criteri istologici standard. Se sulle cellule maligne c'è troppo c-met, appare logico ipotizzare che una terapia per il cancro del fegato sia spegnere c-met. In laboratorio questo si fa già: nel topo si può modificare il sistema di ricezione cmet con tecniche di ingegneria genetica. Perché allora non possiamo avere questa terapia? Proprio perché si fonda su tecniche di modificazione genetica. Si tratterebbe infatti di «spegnere» quella porzione del Dna che porta le informazioni e le regolazioni per un gene. Per riuscire a farlo è necessario sviluppare tecnologie che potrebbero servire per «manipolazioni» genetiche, con fini ben diversi dalla terapia, il che ha ovviamente sollevato problemi e polemiche di carattere etico. Per la terapia si può tentare un'alternativa: intervenire non sul materiale genetico, ma sul passo successivo, cioè sui pro¬ getti già stampati. Immaginiamo la cellula come una fabbrica: il progettista (il Dna) è il solo a sapere che cosa si deve produrre e come; deve dunque elaborare progetti molto precisi, dettagliati, comprensivi dei tempi di esecuzione. I progetti stampati, nella cellula, sono gli Rna messaggeri, ben specificati come quantità e tempo di esistenza in vita. Distrutti i progetti, la fabbrica non produce più nulla. Noi vogliamo distruggere solo i progetti specifici per un singolo prodotto indesiderato, e non per tutti gli altri 2000 che il fegato deve fare in continuazione. In laboratorio si può oggi costruire una copia «al negativo» del progetto: quando le due metà (positiva e negativa) si incontrano e si incastrano perfettamente, l'esecuzione del progetto è bloccata, perché questo non può più esser letto dalla catena di montaggio della cellula. Questa tecnologia si chiama «anti-senso»; è efficace e facilmente modulabile, ma presenta alcuni problemi: 1 ) il costo di produzione è molto elevato; 2) è necessaria una molecola di anti-senso per ogni singolo Rna messaggero; 3) è necessario far arrivare 24 ore su 24, ogni giorno, per sempre, la copia negativa là dove deve agire. Questo richiede iniezioni giornaliere del farmaco, per tutta la durata della vita del paziente, il che rende tale terapia di difficile attuazione. Bisogna inventare qualcosa di più semplice, che sia attivo per un tempo più lungo (perciò con rare somministrazioni) ed agisca molte volte di seguito, a ripetizione, e quindi con dosaggi molto ridotti. Come fare? Ci ha pensato madre natura, miliardi di anni fa. All'inizio della vita sulla Terra non esistevano gli enzimi, le preziose ma complesse proteine che permettono l'esecuzione di ogni reazione chimica negli organismi viventi; c'erano solo molecoje semplici, fra cui gli Rna. Alcuni di questi erano - e sono capaci di «sforbiciare» altri Rna (i «progetti» della cellula) con accuratezza, rapidità e precisione. Gli studiosi hanno chiamato «ribozimi» (Rna-enzimi) questi particolari Rna. L'uso dei ribozimi in terapia è stato approvato a gennaio di quest'anno dalla Food and Drug Administration, l'organismo che negli Stati Uniti controlla l'introduzione dei farmaci per l'uso umano. Un ribozima può agire migliaia di volte sul suo Rna bersaglio, perciò ne basta poco; può essere assolutamente specifico per uno ed uno solo dei progetti della cellula, perciò non causa danni a tutto il resto dell'organismo; può esser molto piccolo, perciò facile da sintetizzare e a basso costo. Forse presto sapremo se la terapia si arricchirà anche di queste meravigliose invenzioni della natura. Antonio Ponzetto Un albero domestico da 5000 anni NELLE feste pasquali l'olivo, albero mediterraneo per eccellenza, assurge a simbolo di pace, perdono, resurrezione. E' innegabile che l'olivo per la leggerezza del suo portamento e la luminosità del suo fogliame argentato si faccia apprezzare soprattutto nella stagione in cui la natura impone la sua tavolozza di colori pastello dai gialli, i primi a comparire, ai bianchi, ai rosa. Olea purpurea satìva (la forma coltivata) discende presumibilmente dall'olivastro, Olea europea oleaster, olivo selvaggio diffuso nella macchia costiera più calda della Spagna meridionale e dall'Africa settentrionale fino alla Palestina e alla Siria. La domesticazione sarebbe avvenuta non meno di 5000 anni fa. Gli antichi greci sarebbero stati i primi a coltivare l'olivo domestico attribuendo alla pianta sacralità, poteri magici e simbolici, come propiziatrice di pace. Ad Atena, secondo Erodoto, sarebbero stati chiesti i polloni degli olivi coltivati in vicinanza del suo tempio. Ulisse avrebbe dormito in un letto fatto di legno di olivo, mentre, sempre secondo Omero, la clava di Polifemo sarebbe stata fatta con questo legno; con olio di oliva veniva unta la muscolatura di atleti e guerrieri. L'aspetto sacrale accomuna ebrei e cristiani: nella Genesi la colomba reca a Noè un ramoscello di olivo per annunciare la fine del diluvio e il battesimo cristiano avvenne con l'olio di oliva. Ai greci spetta il merito di aver diffuso l'olivo in Italia anche se si conoscono sulle colline di Fara e di Lugo (Vicenza) reperti fossili di foglie e ramoscelli di olivastro. La forma selvatica è la specie forestale più termofila della flora europea, la si rinviene su balze e roccioni riparati insieme al carrubo, alla fillirea, al lentisco, al corbezzolo e al leccio, specie tipiche della macchia mediterranea, un ambiente di straordinaria bellezza, importante per la difesa del suolo, di forte interesse naturalistico ed ecologico. Se lasciata indisturbata la macchia può mutarsi lentamente in foresta vera e propria. L'olivo domestico ha, invece, una flessibilità ecologica maggiore: certe sue varietà possono sopravvivere ai rigori invernali della fascia mediterranea e di quella submediterranea. Gli oliveti del lago di Garda sopravvissuti senza danno al terribile inverno del 1985 sono una testimonianza dell'adattabilità climatica dell'olivo. Piante assai longeve, gli olivi, hanno un lento accrescimento; tenaci e frugali possono raggiungere età venerabili: in Sicilia si additano ancora olivi piantati dai saraceni, a Fara in Sabina (Rieti) esiste un olivo di 2000 anni ancora produttivo; e sarebbero ancora vivi due olivi dell'orto di Getsemani. La coltivazione dell'olivo ha avuto da noi vicende alterne, pur rimanendo l'Italia sempre uno dei maggiori produttori ed esportatori. Attualmente l'Istituto per l'olivicoltura del Cnr sta cercando di rilanciare questa coltura, sia perché l'olivicoltura tradizionale è caratterizzata da piante vecchie e di età differente, sia perché si intravedono nuove aree produttive extra mediterranee su superfici di migliaia di ettari in Argentina, Cile, Sud Africa e Australia che richiedono che l'olivicoltura italiana punti su di un prodotto di elevata qualità. L'Italia sta svolgendo un ruolo importante sia dal punto di vista scientifico che tecnologico in questo settore: basti pensare alla giornata di studio che organizzerà prossimamente l'accademia dei Georgofili di Firenze: si parlerà delle tecniche più moderne di propagazione, della situazione della Puglia dove esiste un Consorzio Vivaistico che si occupa di materiale certificato, e dei risultati di un ampio programma di miglioramento genetico. Questo ha interessato 17 varietà per complessive 127 combinazioni genetiche in cui sono state valutate le drupe (i frutti) in base al peso, alla pezzatura, alla forma, al colore dell'epidermide e della polpa, alla precocità, al rapporto polpa-nocciolo con lo scopo di ottenere varietà con frutti maggiormente adatti alla trasformazione di quelle attualmente impiegate. Elena Accati Università di Torino

Persone citate: Antonio Ponzetto, Elena Accati, Fara, Noè, Semplice, Walter Grigioni