Germania il colosso impaurito

La sfida da affrontare: divenire competitivi, ma senza rinunciare alla filosofìa del consenso su cui la società si è edificata dopo l'esperienza totalitaria Germania, il colosso impaurito Mercato e Stato sociale: la scelta impossibile BONN DAL NOSTRO INVIATO Ha detto una volta Willy Brandt che la Germania è una nazione bruciata dal proprio passato. Che ha la pelle come scorticata, e che ogni evento la ferisce, la espone a depressioni che altri europei non conoscono. Per quanti tentativi faccia non riesce a smettere il lutto, non riesce ad accomiatarsi dalle catastrofi della propria storia. Il suo amore patrio è essenzialmente amore-ricordo, e questo significa che il popolo tedesco è soggetto a speciali timori, a ricorrenti tremori, pudori. Così accade anche in questi tempi, che non son facili per il Paese che nel frattempo s'è fatto più vasto, e popoloso. Sembrava la nazione più preparata, a osservare le severe regole imposte dall'Europa di Maastricht. Aveva la forza dei suoi successivi miracoli economici, e sembrava poter eccellere anche in quest'ennesimo sforzo, che incombe sulle popolazioni europee alla vigilia della Moneta Unica. Invece la Germania fatica ad aggiustarsi. Fatica a integrare le regioni ex comuniste dell'Est, tormentate da altissimi tassi di disoccupazione. Fatica a riformare lo Stato sociale che fin dai tempi di Konrad Adenauer e di Ludwig Erhard ha ampiamente corretto - negli anni Cinquanta e Sessanta - le ingiustizie dell'economia di mercato. La Germania fatica in modo speciale a causa del suo passato storico, precisamente. E' l'esperienza del passato che l'ha indotta a dar corpo a quella peculiare forma di capitalismo negoziato che si chiama capitalismo renano, o economia sociale di mercato. E' il ricordo della propria nazione strappata ai disastri di due dittature che la spinge a paventare, oggi, la line di un modello sociale fondato sulla ricerca permanente, spasmodica - del consenso, dell'armonia sociale. I conflitti troppo violenti, le contrapposizioni brutali, le radicalizzazioni politiche che possono nascere dall'alta disoccupazione (quasi 5 milioni): tutto questo è oggi specialmente paventato perché ricorda l'epoca di Weimar, e gli estremismi che condussero al nazionalsocialismo. Ma non è l'unica cosa che i tedeschi temono. Così come temono i conflitti sociali, i tedeschi hanno paura del deprezzamento della propria moneta, dell'evaporare del suo valore, dell'inflazione che divora i risparmi e li riduce a carta straccia, come nella grande crisi inaugurale della Germania contemporanea che è il tracollo del '29. E' una crisi, quest'ultima, inestirpabile dalle menti di tutto un popolo. E' appesantiti dal ricordo di questa crisi, ancor più che dai sensi di colpa per il passato nazista, che i tedeschi si apprestano a entrare nel nuovo millennio. La paura che hanno della nuova Moneta Unica - soprattutto in Germania Est, dove la solidità valutaria è di recentissima acquisizione - la paura di dover sacrificare il marco sull'altare dell'Euro, scaturisce da questo lavoro di reminiscenza storica: che è ancora straordinariamente diffuso nella popolazione, che non tende a scemare, e che per vie misteriose arreca ancora immutate dolorose apprensioni. E' il motivo per cui la Germania è particolarmente segreta e ineffabile, in mezzo agli innumerevoli clamori europei. E' il motivo per cui appare nelle vesti di nazione-sfinge, che sa rispondere solo con enigmi contraddittori alle domande che le vengono rivolte. E' terrorizzata dall'Euro, e però teme al tem- po stesso la difficile solitudine del marco e del proprio Paese. Ci dice Karsten Voigt, responsabile della politica estera nel partito socialdemocratico, che tutti temono l'Euro in Germania ma che nessun politico oserebbe costruire su tale timore una durevole strategia: «I pochi che hanno tentato - come il liberale Brunner, come il socialdemocratico Spòri - sono andati incontro a fallimenti elettorali, e questo perché i tedeschi tutto vogliono, tranne restare ancora una volta soli in Europa. Soli e nuovamente demonizzati, osteggiati dalle circostanti popolazioni europee. Soli e ancora una volta nazione-paria, come lo furono il giorno della sconfitta nel traumatico '45». Ma non meno contraddittoria è l'ansia di preservare l'armonia sociale tale e quale, a dispetto dell'economia che diventa mondialmente competitiva e che obbliga anche la Germania a ridurre drasticamente costi di lavoro e salari, pensioni e sovvenzioni a industrie minerarie antiche, protezioni mediche e sicurezze sin qui garantite. Anche qui la nazione tedesca si fa sfinge, non offre spesso altro che enigmi. Tutti i nostri interlocutori insistono sul modello tedesco di consenso sociale, cui non intendono assolutamente rinunciare. Ma al tempo stesso vogliono evitare le chiusure protezionistiche come gli espedienti inflazionistici, che farebbero pesare sulle future generazioni i debiti contratti dalla presente, e che renderebbero fragile la loro moneta come appunto negli anni Venti e Trenta. Consigliere di Kohl sulle questioni europee, il deputato democristiano Karl Lamers dice che questa è la grande scommessa dei prossimi anni, e decenni: «Si tratta di divenire competitivi, ma senza rinunciare alla filosofia del consenso su cui le nostre società si sono edificate dopo l'esperienza totalitaria. Si tratta di evitare che l'economia o la competitività diventino improvvisamente nemiche della democrazia. Si tratta di costruire un modello che sia adatto all'Europa continentale, e che sia efficiente e creatore di lavoro come quello inglese o americano, ma senza le diseguaglianze sociali e le ingiustizie che hanno messo radici negli Stati Uniti, in Gran Bretagna. Queste ultime nazioni possono forse sopravvivere con un'alta dose di ingiustizia sociale. Non così le nazioni continentali che hanno alle spalle storie tormentate, come Germania, Francia, Italia». La Germania in special modo non può. Dovrà tagliare ampiamente i costi dello Stato sociale, dovrà correggere una cultura che prima di esser socialdemocratica fu patrimonio dello Stato protettore e fiscale concepito da Bismarck, ma difficilmente potrà rinunciare al suo modello di consenso sociale. Tutta la democrazia postbellica tedesca è costruita su questo ideale di armonia, contrapposto agli orrori delle lacerazioni di Weimar: armonia e consenso tra parti sociali, attraverso gli istituti sia pur gravemente indeboliti dell'Azione Concertata e della cogestione sindacale; armonia e consenso tra Federazione e singoli Lànder-regioni; armonia e consenso tra governo e opposizione sulle scelte politiche fondamentali, quando l'opposizione ha la maggioranza nella Camera delle Regioni, nel Bundesrat. «E' una sorta di permanente e gerar- chizzata tavola rotonda cui i tedeschi si sono in mezzo secolo abituati», ci dice nell'ufficio della cancelleria Michael Mertes, consigliere di Kohl per la politica della cultura, «anche se una cosa è chiara: la tavola rotonda rallenta non poche decisioni, nell'attuale difficile congiuntura». Secondo Karl Lamers, la stessa Unione monetaria nasce dal successo di questo modello tedesco di concertazione sociale, e di patto disciplinante tra le generazioni. «Oggi i politici europei tendono a dire che il modello da imitare è quello della Bundesbank, della Banca centrale tedesca. Che veramente decisivi sono solo i criteri di spesa pubblica, di inflazione. Che null'altro è in gioco se non la riuscita monetaria, tecnocratica. Ma quando abbiamo concepito l'Unione monetaria erano ben altri i propositi, erano ben altre le ragioni per cui i nostri alleati scelsero il modello tedesco. Quello che li attirava non era solo l'efficienza del marco ma la nostra capacità istituzionale di gestire la conflittualità sociale senza scontri violenti. Capacità di cui l'autonomia della Bundesbank è parte certo essenzia- le, ma non unica. Quel che si intendeva costruire era un'Europa più competitiva ma anche più giusta e solidale dell'America o dell'Inghilterra, della Corea o della Cina. Da questo punto di vista i politici in Europa sono del tutto madeguati alla sfida. Hanno dimenticato qual era il progetto iniziale. Hanno dimenticato se stessi, i propri ideali, e non parlano che di parametri e di forche caudine. Ovvio che l'Europa diventi oggetto di tutte le paure, identificata com'è con la mondializzazione e la perdita delle frontiere classiche. Ovvio che si installi anche in Germania la paura dell'illimitato, dell'informe, che l'Europa dissolta nel mondo e priva di proprie ambizioni finisce inevitabilmente col rappresentare». Tanto più inquietante è il vacillare della Germania, che doveva servire da modello. Tanto più gravosa è la solitaria avventura di ricostruzione economica e psicologica dell'ex Germania comunista, e di conquista economica dell'Est europeo. Sono passati più di sei anni da quando il Paese si è riunificato, e le difficoltà dell'Est tedesco permangono. I salari sono stati parificati, ma la produttività è molto più bassa a Est che a Ovest. Industrie intere sono crollate in Germania orientale, e vi sono regioni, come a Rostock, dove la disoccupazione è pari al 50-60 per cento. Le tradizioni economiche liberali della Germania ne hanno risentito, e il ruolo dello Stato nell'economia è andato abnormemente accrescendosi: in poco più di sei anni, da quando le due nazioni si sono unite, i trasferimenti di risorse pubbliche da Ovest a Est ammontano a oltre 700 miliardi di inarchi. Difficile in queste condizioni difendere un modello europeo che sia antagonista a quello anglosassone, o asiatico. Difficile dal momento che solo la Germania ha risposto alla sfida europea dell'89, dandosi come compito la ricostruzione dell'Est postcomunista. Lo stesso Lamers ammette che molte occasioni sono state perdute in Europa, indebolendo per questa via anche il progetto di Maastricht. E' mancato un comune piano Marshall, per la ricostruzione dell'Est europeo. E' mancata una politica comune coraggiosa nella guerra di Croazia, poi di Bosnia. E' mancato un grande compito, da assumere in comune per la conquista della democrazia e di stabili economie di mercato nell'Europa strappata al comunismo. Ma il compito anche se difficile non è ùnpossibile, dice ancora Lamers. C'è innanzitutto l'esempio olandese, assai istruttivo per la Germania. Secondo Lamers è questo oggi il vero modello da imitare, in Europa. L'Olanda ha cominciato il riaggiustamento già quindici anni fa, tagliando drasticamente le spese pubbliche ma senza distruggere lo Stato sociale. Il Paese ha introdotto in maniera massiccia il lavoro parziale - per le donne soprattutto ma anche per gli uomini - e i sindacati hanno accettato spettacolari riduzioni salariali per un lavoro divenuto più flessibile. Oggi il reddito medio è sceso del 25 per cento rispetto a quello tedesco, «ma non pare che gli olandesi siano meno felici d'un tempo». L'Olanda è oggi una delle nazioni più soddisfatte d'Europa. Ha salvato il capitalismo renano, e nonostante questo sa combattere sia l'inflazione, sia la disoccupazione. C'è dunque ancora qualche possibilità, di salvaguardare l'economia sociale di mercato. C'è qualche possibilità, di tenere in piedi un modello europeo che resti fedele alle proprie tradizioni, che protegga le nazioni dagli incubi della propria storia passata, e che al contempo sia competitivo. Molti tedeschi ancora ci credono, nonostante le paure ricorrenti e il marasma economico e sociale in cui si trovano. Barbara Spinelli |*m«^J-:"»Ky:«| ... ella foto grande: il centro di Bonn basso, a sinistra: Karsten Voigt, sponsabile della politica estera l partito socialdemocratico elia foto a destra: Helmut Kohl Tutto quello che avviene oggi ricorda l'epoca di Weimar Le tradizioni liberali hanno risentito dell'unificazione Voigt (spd): nessuno osa cavalcare l'ansia dell'Euro Lamers (de): il vero modello da imitare è l'Olanda, non noi