la rivolta a Tirana assalto agli arsenali

Un raid all'alba, due dopo il coprifuoco. Spari nel centro della capitale e all'aeroporto Un raid all'alba, due dopo il coprifuoco. Spari nel centro della capitale e all'aeroporto la rivolta a Tirana, assalto agli arsenali Mentre il primo ministro forma il governo: 7 posti all'opposizione DAL NOSTRO INVIATO La prima giornata di Bashkim Fino è stata spossante. Lui è arrivato da Argirocastro alle 10,30, su una Mercedes fumo di Londra, con le tendine azzurre abbassate sul lunotto e la scorta della polizia sulle motociclette Guzzi con i lampeggiatori accesi. Forse un po' teatrale, l'ingresso a Tirana del nuovo premier, ma qualcuno lo ha applaudito. A 35 anni appena compiuti ha accettato la scommessa e tenterà di riportare l'Albania sulla strada della normalità. Lo appoggia il partito socialista, in cui milita, e lo guardano con diffidenza i democratici. Economista, master negli Stati Uniti e idee dinamiche, ex sindaco di Argirocastro: lo descrivono come imo pragmatico, uno che sa fin troppo bene che non potrà lavorare su percentuali e diagrammi ma dovrà improvvisare, perché questo suo Paese ò una sorpresa continua. Per tutti, forse anche per lui, come pure per il presidente Sawri Berisha, che ne pareva il signore incontrastato e che ora sembra «out», tanto che gli americani gli offrono asilo politico. Mentre per la tv russa il Presidente sarebbe addirittura fuggito: una voce che non ha trovato conferme. Tirana vive ore incerte e basta un segnale per mutarne l'umore. Ed è difficile leggerli correttamente, i segnali. Alle 4 dell'altra notte, per esempio, vicino al mio albergo, hanno sparato a lungo, poi sono passati cinque camion militari, di quelli cinesi, tozzi, senza il telone, con giovani aggrappati dappertutto. Gridavano: «Vlora, Vlora», «Valona, Valona». Arrivavano dallo stadio dietro l'università, e hanno percorso tutto il Deshmoret e Kombit, e in piazza Scanderbeg quattro hanno piegato per Durazzo, uno per Kavaja. Nella luce dei fiochi lampioni vedo che alcuni indossano le vecchie divise donate dalla Germania Est nel periodo di idillio con Enver Hoxha e non sono armati. Quando al mattino cerco di chiarire l'episodio, ottengo queste risposte: «Erano quelli della guardia presidenziale, si erano ammutinati»; «No, erano giovani che avevano finito il periodo di ferma e tornavano nei loro villaggi»; «Erano i provocatori». Notizie incerte anche sull'atteggiamento dei soldati. C'è chi assicura che ora avrebbero minato le caserme per evitare gli assalti. Quelli del Sud insistono: Berisha deve andarsene perché se non se ne va, non si tratta, non si restituiscono le armi. Ma Bashkim Fino vuole intrecciare subito rapporti con chi si è ribellato, perché lo sa bene che è inutile far finta che non esista il «Consiglio Nazionale», quello sorto ad Argirocastro e guidato dal vecchio generale Agim Gorzhika, uno che quando parla riesce a far tacere gli altri con un solo sguardo. Il nodo è Berisha, tutto il Sud lo ha ripudia¬ to e il problema, ora, è dirglielo. Ma a dispetto degli studi meticolosi di economia, Bashkim Fino lo sa bene che tutto si può discutere, trattare, barattare. In cambio della pace, anche la testa di un Presidente. Ma non necessariamente. Niente pugno di ferro. Del resto, quando Berisha lo ha mostrato, è stato un fiasco. E poi, una scelta del genere apparirebbe assai imbarazzante per i socialisti. Si tratta, si torna a cercare tempo, pur se i sintomi della guerra per bande si avvertono ormai anche qui nella capitale, forse non c'è altra strada da battere. Così la divisione dei ministeri è accurata. All'opposizione vanno sette pos'i: primo ministro, difesa, finanza, sanità, trasporti, lavoro, agricoltura. Alla maggioranza otto: intemi, esteri, giustizia, privatizzazioni, cultu- ra, sport, istruzione, territorio. Punto irrinunciabile per i socialisti la liberazione dell'ex capo del governo Fatos Nano, in carcere per tangenti. Insomma sui ministeri, una divisione fatta col bisturi, che dovrebbe consentire una ripresa decente. Se il nuovo premier si aspettava qualche sognale positivo, di certo uno gli ò arrivato da Valona, a metà pomeriggio. Il comitato della «Libera Repubblica» ha fatto sapere di aver telefonato al nuovo primo ministro e di averlo informato che «la maggior parte degli effettivi della polizia ha ripreso il lavoro e oggi ha iniziato il pattugliamento delle strade, il porto è sotto controllo, presto riprenderanno le loro funzioni anche il municipio e il Consiglio del distretto». Ma non tutto appare così sereno: quando cala la notte, Valona torna terra di nessuno o di troppi, e i raid di gente armata e dal volto coperto si moltiplicano. Provocatori, sono provocatori, ripetono in molti. E anche a Permet, ai piedi del monte Dhembcl, quasi alla frontiera con la Grecia, i «provocatori» scorrazzerebbero per le strade, appena arriva il buio, e avrebbero violentato alcune donne. Solo per questo, si dice, la gente avrebbe imbracciato il fucile. Ma chi sono i «provocatori»? E a chi obbediscono? Gente scesa dal Nord, dicono a Valona, ma anche a Tirana, mandati giù ad appiccare il fuoco così da poter intervenire con durezza. E chi dovrebbe intervenire? Il potere, naturalmente. Uomini senza scrupoli, pagati 3 o 400 dollari al giorno, con licenza per qualsiasi infamia. Gente dei servizi che ad un certo punto sarebbe sfuggita al con- trailo. Ed è in questo quadro che si è inserita l'idea di un golpe niente affatto strisciante. Da Valona a Saranda, ad Argirocastro, ad El Basan, su su fino a Tirana, dove ora la gente ha paura perché si sa che ormai le armi ce le hanno in troppi e anche ieri qualcuno ha dato l'assalto alla Skolla Baskune. la scuola di alti studi militari. Qualche raffica in aria, una piccola razzia di fucili automatici, con gli ufficiali che avevano lasciato, in pratica, i cancelli aperti. In serata poi è arrivata notizia di spari nel centro, all'aeroporto (chiuso temporaneamente), e di altri due assalti al deposito militare alla periferia della capitale. A Nord, per prudenza, la Serbia ha chiuso il confine col Kosovo. Ed anche gli Usa hanno deciso di cautelarsi ordinando il rimpatrio di 160 americani, dipendenti del governo e familiari, invitando altri 2000 cittadini Usa presenti in Albania a lasciare il Paese. Gli assalti alle caserme si estendono a macchia d'olio, ma c'è chi si ribella a questa logica nichilista. I ragazzi della Fondazione Scanderbeg, i «nuovi albanesi», come li ha chiamati qualcuno, lanciano im grido: «Noi siamo quelli che sparano, quelli che rubano, siamo i violenti e gli ignoranti, ma siamo anche quelli che amano e che studiano, quelli che lavorano e che vogliono avere im futuro. Noi siamo quelli che non potevano uscire dai confini per la volontà di uno e siamo quelli che sono rifiutati da tutti perché nessuno ci fa entrare. Ma noi siamo come voi e quello che ci succede può succedere a voi. Oggi, noi non rischiamo la morte, ma siamo già morti se non c'è un atto del mondo intero che dica: "Basta!". Non lasciateci distruggere, costringetevi a vivere». Ma ancora, qui nella capitale triste, l'eco dei colpi si ode ogni notte e ogni notte c'è paura: se dovesse «cadere» Tirana, sarebbe la fine. Ma ieri sera, le luci dei cento bar illuminavano i viali centrali, e la piazza Scanderbeg. E questo pareva un bel segno. Vincenzo Tessandori Nella notte 5 camion hanno attraversato piazza Scanderbeg Erano pieni di giovani che gridavano slogan: misteriosa la loro provenienza e tendenza politica Ordine di partire per 160 americani o a o o e O a e a, el iil di di di omUetpbndAi snbgim«l Un bambino e un anziano trasportano e armi prese da una base militare nel Sud dell'Albania; A fianco, il nuovo primo ministro albanese Bashkim Fino durante la conferenza stampa che ha tenuto ieri a Tirana