Hong Kong è morta anche la paura di Enzo Bettiza

Hong Kong, è morta anche la paura Niente fughe di capitali e non si vedono più code ai consolati per chiedere visti d'espatrio Hong Kong, è morta anche la paura Ottimismo nel dopo-Deng sulla riunificazione DAL NOSTRO INVIATO Di Hong Kong si usava dire che era cuna perla nell'ostrica comunista». Nei 156 anni di irreprensibile dominio coloniale britannico, dominio che terminerà fra circa quattro mesi, la perla è cresciuta smisuratamente, con la vitalità di un tumore benigno, dentro le valve aperte dell'ostrica prima imperiale, poi nazionalista, maoista, denghista e ora postdenghista. Il 1° luglio 1997 le valve si chiuderanno alfine sul gioiello e lo inghiottiranno. La perla si separerà per sempre dalla protettiva serva inglese. Rientrerà completamente e definitivamente nel glutine dell'immane mollusco cinese, sparirà nel futuro ancora ignoto di un impero ambiguo che si dice socialista senza esserlo più e che affronta in realtà le doglie di un neocapitalismo originale, avventuroso, imprevedibile. Hong Kong, la perla del Pacifico, a partire dalla metà del '97 non potrà fare altro che inchinarsi al fato seguendo, nel bene o nel male, la sorte imperscrutabile della gigantesca ostrica materna. Al primo colpo d'occhio, però, si direbbe che Hong Kong e i suoi sei milioni e mezzo di abitanti non vogliano renderei interamente consapevoli della svolta storica che, fra un centinaio di giorni, imprimerà perfino una nuova identità anagrafica alla loro rigogliosa citta capitalista. Essa non si chiamerà più Hong Kong ma Xianggang; non sarà più considerata una colonia anomala, una portentosa città-Stato alla stregua di Singapore; diventerà una «regione amministrativa speciale», a statuto semiautonomo, della Repubblica popolare cinese. Insomma, una provincia particolarissima dell'impero rosso, con una polizia in parvenza indipendente e una Costituzione parademocratica, clùamata <>Legge Fondamentale», che dovrebbe garantire per mezzo secolo, fino al 2047, l'autonomia e la diversità delle sue istituzioni politiche, economiche e sociali da quelle cinesi. Ma il nuovo governatore, che succederà all'inglese Christopher Patton, sarà un notabile cinese del luogo, legato con più fili di seta e d'acciaio alla nomenclatura comunista di Pecliino. Tuttavia, fra tante incertezze, tante ambiguità, la maggior parte degli honkonghesi, che sono cinesi e costituiscono il 98 per cento della popolazione, ostentano, come ho detto, una loro beata e fatalistica incoscienza rispetto all'avvenire che li aspetta al varco enigmatico del Duemila. Non c'è più il panico che sentivo serpeggiare, anni orsono, fra gli sterminati e sovente bellissimi grattacieli dell'isola di Hong Kong e della penisola di Kowloon. Non ci sono più file spaventate davanti ai consolati occidentali. Ormai la caccia al passaporto straniero e finita. Diversi honkonghesi ricchi, dopo un soggiorno a Londra che li ha abilitati al possesso di un autentico passaporto inglese, sono tornati alquanto fiduciosi qui; hanno preso sul serio l'impegno di Pechino, la quale continua a sottolineare che, almeno per cinquant'anni, rispetterà i diritti di tutti i residenti provvisti di doppia cittadinanza. A un manager del Mandarin, l'albergo piii fastoso di Hong Kong, un vivace italiano che si chiama Valenti, chiedo cosa farà lui il 1" luglio, quando l'Union Jack verrà ammainata e sostituita dalla bandiera rossa a cinque stelle gialle. Mi risponde sorridente e quieto: «Cosa vuole che faccia? Si guardi intomo. Farò anch'io quello che faranno i cinesi locali: resterò dove sono e continuerò a lavorare». Concludendo, il signor Valenti punta l'indice verso le foschie tropicali che avvolgono nell'indistinto il continente: «Ci hanno pur promesso che per mezzo secolo non toccheranno nulla. Quel che accadrà dopo, non sarà più affar mio». Si guardi intorno. Guardo e vedo e sento lo spettacolo, il fervore, il brusio di sempre. Confesso che mi è difficile capire se si tratti di normalità vera, eli laboriosità consueta, di tranquilla indifferenza per l'immediato futuro, oppure di una corsa nevrotica contro il tempo e contro il destino. Come se l'intera Hong Kong dopo i tanti miracoli realizzati in quarant'anni fosse sul punto di far esplodere dalle sue viscere di vetrocemento un ultimo prodigio economico, un'ultima tumultuosa eruzione di denaro e di benessere, prima che i comunisti cinesi installino nel palazzo il loro governatore al posto di quello britannico. Tutto ciò che osservo mi appare più turgido che mai. Ancor sempre cittadella chimerica e futuribile dell'onnivoro capitalismo confuciano, Hong Kong, alla vigilia della restituzione alla sibillina madrepatria, continua a bruciare ventiquattro ore su ventiquattro nella sua febbre convulsa. L'epidemia del benessere, del guadagno, della corsa al successo, s'insinua in ogni metro quadrato lasciato libero dalla fungaia tentacolare dei grattacieli in crescita continua. Il porto, come sempre, è un fermento ininterrotto di traffici e di imbarcazioni d'ogni stazza e bandiera; gli alberghi faraonici e labirintici, simili a microcitta ria fantascienza, inghiottono e scaricano sulle strade sovraffollate orde di turisti storditi e quasi increduli di quel che vedono e comprano; gli ideogrammi pubblicitari continuano a fiammeggiare anche in pieno giorno sui tetti altissimi, mentre la notte s'accende dei richiami fosforescenti di decine di migliaia di ristoranti, locali notturni, topless bar, supermercati ùisonni, cinema a luci rosse, equivoci saloni di bellezza e di massaggio. Paradossalmente, tutta questa densa esaltazione di vita, di commercio, anche di vizio, è aumentata piuttosto che diminuita dopo la morte di Deng Xiaoping. A tratti, mi coglie l'impressione che l'incoscienza di tanti honkonghesi davanti al futuro sia tale più in apparenza che in sostanza. Il cinese, soprattutto il cantonese, è un indivi¬ dualista accanito che sa fare lucidamente i conti con la propria sorte. Molti mi dicono che Hong Kong sarà qualcosa di più, per la Cina, di una Zecca di valuta pregiata, di un emporio in stato di grazia perenne, di un reattore ad alto potenziale trainante conficcato nell'immenso jumbo del capitalcomunismo denghista. Sarà anche il test, la prova generale, d'incommensurabile valore politico e simbolico, del famoso teorema escogitato dalla mente fertile e pragmatica del defunto Den«: «Una nazione, due sistemi». Teorema valido non solo oggi per la piccola isola di Hong Kong, ma soprattutto domani per la più grande e non meno concupita isola di Taiwan. Valido, inoltre, per tutta la se¬ conda «Cina esterna», quella della diaspora affaristica che da Singapore s'estende alla Thailandia, all'Indonesia, alla Malesia, all'Australia, arrivando fino alle coste del Canada e della California. Una comunità operosa fra le più opulente e produttive del mondo, di cui la grande Cina continentale, la «Cina interna», non può e non potrà fare a meno se vorrà arricchirsi a sua volta per diventare la dominante superpotenza del Pacifico. Tutto ciò che accadrà a Hong Kong, dopo la fatidica data del 1° luglio, sarà minuziosamente osservato, valutato e giudicato dai cinesi di Taiwan e della diaspora. Uno sgarro a Hong Kong, una deviazione dalla formula «una nazione, due sistemi», potrebbe quindi costare assai cara, in termini materiali oltreché morali, ai comunisti di destra che regnano a Pechino e puntano molte carte sui capitali e l'assistenza tecnologica dei cinesi esterni. E' questo, fra gli ondeggiamenti pessimistici, che si vedono e non si vedono, il lato ottimistico che almeno in superficie prevale nell'attivismo e nello stato d'animo degli honkonghesi alla vigilia del trapasso dei poteri da Londra a Pechino. Le incalzanti aperture riformiste della Cina di Deng, solennemente riconfermate dal presidente Jiang Zemin e dagli altri successori, hanno indubbiamente ricaricato Hong Kong di nuove speranze e di nuova vitalità. E' sugli aspetti positivi del cambio della guardia che il cinese di qui punta lo sguardo. Ecco perché i fuggiaschi d'una volta, diventati honkonghesi, non pensano più di dover fuggire una seconda volta. Avevano lasciato nel terrore la Cina di Mao, ora aspettano con relativa fiducia l'arrivo della Cina di Deng. Un esempio. I profughi d'un tempo, che rischiando la pelle arrivavano qui attraverso un villaggio di pescatori d'oltreconfine, hanno poi visto quell'oscuro villaggio trasformarsi rapidamente, dopo il 1978, nella spettacolare «Sez» o «zona speciale» di Shenzhen. Anche Hong Kong, 156 anni orsono, nel momento ni cui se ne impossessarono gli inglesi, non era altro che un isolotto brullo e calvo abitato da poche migliaia di pescatori e di pirati. Anche Hong Kong allora, come Shenzhen sino a quindici anni fa, era introvabile sulla carta geografica. Oggi Shenzhen, che Giancarlo Pajetta definì «campo di concentramento capitalistico», è diventato la copia in miniatura della grande e fortunata cugina honkonghese. Anche là, come qua, grattacieli vertiginosi, ascensori esterni e fulminei, scale mobili, supermercati, con una sola valuta d'obbligo: il dollaro di Hong Kong col profilo della regina Elisabetta. Dunque, proprio a un passo dalla frontiera, che fra poco non ci sarà più, il comunismo denghista ha voluto incollare la sua più spregiudicata «zona speciale» come una ventosa osmotica al territorio di Hong Kong. Il 45,5 per cento dell'investimento forestiero a Shenzhen proveniva già da un pezzo dalle banche e aziende honkonghesi; gli imprenditori honkonghesi vi trovavano inoltre il basso costo della manodopera, tre volte minore che nella colonia, nonché una maggiore disponibilità di spazio per la costruzione di stabilimenti e depositi nuovi. Quanto al profitto dell'investimento a Shenzhen, esso era e resta, anche dopo la scomparsa di Deng, fra i più alti nell'area del Pacific Bim: 14 per cento, ovvero 2,5 meno che a Singapore, ma 4 in più che nella stessa Hong Kong e addirittura 7 in più che a Taiwan. E' quindi abbastanza chiaro alla maggioranza dei honkonghesi che la sorte dell'emporio dipenderà, principalmente, dalla riuscita e dalla durata della svolta denghista che aveva già messo in pratica, nelle «zone speciali», la teoria dei due sistemi in una sola nazione. Gli è, dunque, altrettanto chiaro che il già alto investimento di Hong Kong nella modernizzazione della madrepatria (il 60 per cento dei capitali stranieri e l'80 per cento dei con. tratti stipulati) diventa, anch'esso, una forma di assicurazione politica sul futuro. C'è ovviamente, in tutto questo, un elemento di rischio, di sfida, d'azzardo. Ma il rischio è forzoso. E' una partita a senso unico, da cui Hong Kong, abbandonata dagli inglesi, non si può ritirare più. Tutti sanno che la Cina, sempre sfingea e imprevedibile, può evolvere come involvere. Purtroppo, il margine di scelta è strettissimo. O disertare, fin da oggi, la partita; oppure, restando al tavolo, puntare tutto, l'essere oltreché l'avere, sul successo e lo sbocco irreversibile dell'evoluzione cinese dopo Deng. Mi pare che la scelta di fondo di Hong Kong sia e rimanga questa. Enzo Bettiza La gente ha fiducia nelle rassicurazioni di Jiang Zemin La colonia farà da banco di prova anche per Taiwan

Persone citate: Christopher Patton, Deng Xiaoping, Elisabetta, Giancarlo Pajetta, Jiang Zemin, Legge Fondamentale, Mao, Valenti