Caso Necci l'inchiesta non si ferma

Le accuse rimangono finché non si arriva alla richiesta di rinvio a giudizio o all'archiviazione Le accuse rimangono finché non si arriva alla richiesta di rinvio a giudizio o all'archiviazione Caso Necci, l'inchiesta non si ferma L'ex presidente Fs: oggi c'è il sole, alla Spezia c'erano nuvole ROMA. L'inchiesta continua. Lorenzo Necci (che insiste nel non voler commentare la decisione della Cassazione e se la cava con una battuta: «C'è il sole oggi, alla Spezia c'erano un po' di luna e di nuvole») rimane indagato per i reati di associazione per delinquere, corruzione, peculato, abuso d'ufficio e quant'altro era stato contestato a lui e alla «banda Pacini Battaglia». Sono caduti - nel senso che secondo la Cassazione non c'erano quel fatidico 15 settembre, quando scattarono le manette per ordine dei giudici della Spezia - quei «gravi indizi di colpevolezza» necessari per mandare in carcere una persona; ma le accuse rimangono, finché non si arriverà ad una richiesta di rinvio a giudizio (non necessariamente per tutti i reati) o di archiviazione. Dal novembre scorso l'indagine è affidata, per competenza territoriale, alla procura di Perugia, che come prima cosa ha ordinato una nuova trascrizione di tutte le bobine con le intercettazioni telefoniche e ambientali da cui erano partiti i magistrati spezzini. Perché al momento degli arresti, e ancora due mesi dopo, solo una minima parte di quei colloqui era stata trascritta. Ora il lavoro è stato quasi ultimato, e altri organi investigativi, diversi dal Gico della Finanza, hanno già ricevuto dai nuovi inquirenti alcune deleghe per fare accertamenti e cercare riscontri alle ipotesi eli reato scaturite dalle intercettazioni. Tutto questo procede indipendentemente dalla decisione della Cassazione, anche se l'avvocato Paola Balducci, difensore di Necci, dice che «sicuramente l'inchiesta si mette in discussione». Certo, quel verdetto è un punto fermo per valutare le prove esistenti al momento degli arresti, e in parte per quelle raccolte in seguito. E getta comunque un'ombra sul lavoro dei giudici della Spezia, anche se il ministro Flick spiega che non ci sono i presupposti per un suo intervento. «Non mi pare - commenta il ministro della Giustizia - che un iter processuale che vede il tribunale del riesame decidere in un modo e la Cassazione in un altro sia di per sé tale da poter evidenziare situazioni di macroscopicità. La prima regola per il ministro è quella di non interferire sull'andamento c sugli esiti delle vicende processuali, a meno che non ci siano violazioni macroscopiche». Un'altra ombra si allunga sul lavoro del Gico di Firenze, visto che l'ordinanza cassata dalla Corte suprema ricalcava in gran parte il rapporto dei finanzieri, nella trascrizione delle intercettazioni ma anche nelle considerazioni sui reati ipotizzabili. Il verdetto, inoltre, arriva dopo che già da Brescia erario giunte altre sconfessioni alle accuse sul presunto coinvolgimento di Di Pietro. Il lavoro che la procura di Perugia ha affidato a polizia e carabinieri è quello che non è stato fatto prima dai pm della Spezia e dalla Finanza. Per esempio gli accertamenti bancari alla filiale della Cassa di Risparmio di Bologna di viale Parioli, a Roma, nella quale Pierfrancesco Pacini Battaglia, ipotetico «burattinaio», depositava e prelevava i soldi da dare e prendere in Italia per la presunta corruzione. Un po' di quei soldi, «venti milioni fissi al mese» secondo l'accusa, sono finiti nelle tasche di Lorenzo Necci. Il prezzo della corruzione secondo i magistrati (e che per questo reato i «gravi indizi» ci fossero l'ha confermato pure la Cassazione), per i quali l'ex manager delle Ferrovie era «succubo» di Pacini Battaglia; secondo Necci invece si trattava di prestiti, chiesti perché «avevo bisogno di qualche integrazione per vivere». Solo adesso, ad oltre un anno dalle registrazioni dei colloqui in cui spuntarono quei soldi e sei mesi dopo l'arresto, si staimo valutando gli accertamenti da fare per riuscire a capire se è vera la versione dell'accusa o la difesa di Necci. L'inchiesta continua, ma è diventata più difficile non solo per la sentenza dell'altro ieri. Con gli arresti di settembre, infatti, gran parte del- le carte sono state scoperte, e tante contromisure possono essere state prese. Di fronte al verdetto della Cassazione esultano anche i difensori di Pacini Battaglia, e l'avvocato Sergio Zolezzi dice che quella decisione «dimostra che la tesi difensiva era esatta». Altre sentenze della Corte suprema, però, hanno confermato che sull'ipotetica lobby messa in piedi dal banchiere italo-svizzero c'è ancora da indagare. Ma un altro difensore di Pacini, Rosario Muliniti, coglie al volo l'occasione e si augura che «la Cassazione, chiamata ad esaminare tra una ventina di giorni anche la posizione del nostro assistito, ribadisca il principio espresso per Necci». Per scoprire se «Tangentopoli due» è esistita davvero, insomma, bisogna aspettare ancora. Giovanni Bianconi LA SENTENZA DELLA CASSAZIONE "Dato atto della sopravvenuta carenza di interesse relativamente al punto concernente la sussistenza delle esigenze cautelari di cui all'articolo 274 Codice di procedura penale, annulla senza rinvio l'impugnata ordinanza, nonché l'ordinanza del N settembre 1996 del gip del tribunale di La Spezia, limitatamente alla sussistenza dei gravi indizi di cui all'articolo 416 Codice Penale (associazione per delinquere). Rigetta nel resto il ricorso per quanto attiene alla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza del reato di corruzione aggravata, qui assorbito il motivo inerente al reato di tentata truffa aggravata» L'ex amministratore delle Ferrovie Lorenzo Necci a a ei a F L'ex amministratore delle Ferrovie Lorenzo Necci Qui sotto Pierfrancesco Pacini Battaglia In basso il ministro della Giustizia Flick A sinistra il pm Cardino

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