KRISTOF: IN ESILIO CON I FANTASMI di Giovanni Bogliolo

IL CONSIGLIO IL CONSIGLIO di Franca D'Agostini SI dice che il Novecento abbia portato a una ridefinizione generale delle discipline e delle scienze: la filosofia non è più (solo) filosofia, l'arte non è più (solo) arte, la musica non è più (solo) musica... Ma è davvero così? In realtà sul piano istituzionale quasi tutto sembra rimasto invariato. Qui e là appare qualche sintomo, a tratti, un presagio o un indizio di un cambiamento in corso, ma le grandi linee direttive (per ora) non sono granché mutate. Qualcosa di più di un sintomo, direi anzi il segno inequivocabile di una trasformazione in atto è ciò che si avverte nella nuova serie della «Rivista di Estetica», diretta da Gianni Vattimo, Roberto Salizzoni e Maurizio Ferraris. Nel primo numero, dal titolo Doppio senso (Rosenberg & Sellier, pp. 258, L. 38.000), si nota all'istante l'assenza di qualunque riferimento all'arte e alla bellezza (come sarebbe prescritto dalla comune nozione di estetica): e invece saggi sul numero (dello storico della matematica Paolo Zellini), sulla percezione e l'esistenza in Kant (di Pietro Kobau, Daniel Giovannangeli, Alfredo Ferrarin), sull'ontologia (Maurizio Ferraris). L'estetica ritorna qui alle proprie origini kantiane; non vuole più essere scienza dell'arte e del bello, ma si riconferma come teoria della sensibilità (l'aisthesis greca), studio del senso, nella duplice dimensione di supporto universale della conoscenza empirica, e origine del concetto. A stagione ultima di Attilio Bertolucci fa pensare a un raccogliere di foglie, intirizzite ma vivide, cresciute nella vicenda di un anno lunghissimo (il poeta ha da poco compiuto gli 85) eppure inappagato. Dico delle sue poesie, quelle riunite appena ieri nel volume Alle sorgenti del Cinghio e, ora, nella replica di La lucertola di Casarola. Si svolgono dal 1924 al 1996 e ripercorrono per lampi la sua storia intima e stilistica. Le più antiche si segnalano subito per la scansione melodica, appoggiata o meno alla rima, per la dominanza di una luce che riesce a esaltarsi anche davanti ai sotterfugi delle ombre: appartengono al paesag- la lucertola di casarola Attilio Bertolucci Garzanti pp. 65 L 32.000 la lucertola di casarola Attilio Bertolucci Garzanti pp. 65 L 32.000 gio o ai moti dell'animo, come accade in quel giorno di agosto che si divide «ancora in sole pioggia e sole ancora». Le occasioni di poesia, come in tutto il percorso di Bertolucci, sono minime, e tenute costantemente sottovoce. L'arrivo dell'inverno e della sua, ancora, difforme fioritura nevosa. L'indugio del sole al tramonto, trattenuto sulle soglie della sera dalla cicala che non si arrende. Il sentimento dell'esilio da Panna, dall'Appennino emiliano, nell'acido ricordo di nebbie e «sere azzurrine»: sottraendosi all'abbraccio di Roma, «dolce meretrice» e al «tenero inferno» di Milano. Con una traguardante capacità di cogliere talvolta, e disporre sulla tela, segreti accordi di colori: quel verde delle foglie che separa appena la fiamma del cielo dal rosso delle mele, gonfie di succili terrestri («Ho guardato fuori»). E ancora, passando ai profili umani, un taglio di capelli, le pratiche notarili del matrimonio, un brindisi sotto la pergola... Compare anche qualche figura di ragazza inerpicata tra ginestre o fuggente, al termine degli spettacoli, sul carro delle marionette. Più tardi, la solida, incorrotta presenza coniugale. Non donne salvifiche, che accennalo ad altri mondi, ma silenziose compagne di viaggio, ritagliate in un tepore di aria e di stanza. La storia grande è una intrusa che incendia i «cari tetti» dell'Appennino in un crepitio di rime, distende un pallore di morte su volti amici, ripropone nel tempo crudeli assonanze di nomi (il fratello di Pasolini morto non lontano da Sebrenica e Tuzla, «sopravvivenza - anche la violenza»). Nell'esigua raccolta si può seguire il filo che conduce al poema narrativo La camera da letto: un romanzo di formazione che prende le mosse da una storia famigliare, dal ceppo degli antenati Il poeta Attilio Bertolucci ha da poco compiuto 85 anni rinverdito, al passare delle generazioni, da eccentrici innesti. E' avvertibile nelle schegge, negli episodi rimasti fuori dall'opus magnum e qui saggiati nella loro autonomia, ma anche in qualche anticipo che propone perfino, nel titolo, un'idea di poetica («L'arte del romanzo»). Ma questi recuperi extravaganti vengono incorniciati e compattati con sapienza da due testi, tra i più belli e nutriti della raccolta. Nella «Lucertola di Casarola», che apre il libro e gli presta il titolo, già incuriosisce il fatto che l'animaletto si contrapponga idealmente ai dinosauri di Crichton e di Spielberg. Bertolucci preferisce rifarsi ad animalisti più prossimi e insensibili agli «effetti speciali» come Marianne Moore, l'abate Zanella e Jules Renard. Una scelta diminutiva nell'ordine zoologico che, nell'ordine letterario, sembra dirsi fedele a una scrittura non subalterna rispetto al consumo e al pur amato cinema. Ferma sul portale di Casarola (fin dal nome questa «piccola casa» appartiene alla sua ispirazione più profonda) la lucertola si propone «come emblema - e stemma vivo non so se della famiglia o dell'estate». Nella coda che mozzata rinasce, nel suo «comparire e sparire e riapparire» si atteggia a figura augurale, esperta di metamorfosi, di cunicoli inaccessibili alla gatta di casa, alla sua rapina. Altra la conclusione, la «Canzone triste in tre parti»: «Ora che m'avvicino alla morte - e a voi che a lei vi stringete - perché è l'ultima cosa che vi resta...». Ai vivi e ai morti che vorrebbero trattenerlo, da una stanza scura e fredda di un albergo decaduto, il viandante Bertolucci chiede che lo lascino andare. Nell'ora del disinganno, quando le foglie sono «imbrattate di lucciole sfinite» nell'estate ventosa, il poeta sembra riconoscersi e aggrapparsi a quelle luci fioche, a quel battito estremo di solarità. KRISTOF: IN ESILIO CON I FANTASMI «Ieri», storie di identità lacerate ieri Agota Kristof trad. di Marco Lodoli Einaudi pp. 96 L. 15.000 ieri Agota Kristof trad. di Marco Lodoli Einaudi pp. 96 L. 15.000 ELLA schiera sempre più folta degli stranieri che danno lustro alla narrativa francese contemporanea Agota Kristof - ungherese fuggita in Svizzera nel 1956 - è forse la sola che del trauma dello sradicamento abbia fatto il motivo ispiratore dell'intera sua opera e della creazione letteraria nella lingua della terra d'asilo un'ancora di salvezza. Tutti i suoi personaggi sono degli esuli in bilico tra un passato che non possono cancellare e un presente in cui non riescono a fare presa. Una catastrofe immane - troppo precoce per fissarsi nella memoria e troppo tardiva per precipitare nella rimozione - si è abbattuta sulle loro esistenze, impremendo ad esse una svolta imprevista e mai pienamente accettata. Sono dei sopravvissuti, segnati da un marchio indelebile, ossessionati da tetri fantasmi, combattuti tra il desiderio e la paura di una verità che inseguono e insieme eludono, prima e più che ripercorrendo a ritroso il percorso della loro fuga, scrivendo in una lingua non loro. Solo in Quello che resta, il romanzo che nell'86 l'ha rivelata come scrittrice, l'antefatto tragico è raccontato nel suo farsi, già comunque filtrato attraverso il diario - il titolo originale è Le grand cahier - che i due gemelli che ne sono vittime precocemente tengono. Nei due romanzi successivi - La prova e Le troisième mensonge, il primo solo dei quali tradotto in italiano - questo antefatto, che almeno nei dettagli si rivelerà fallace come lo è sempre la realtà quando si riflette nello specchio deformante delle testimonianze e subisce le censure della memoria, è l'oggetto di una laboriosa investigazione: i due gemelli separati, uno fuggito in Occidente grazie al varco nella frontiera aperto dalla mina su cui è saltato il loro padre e l'altro rimasto in patria, si cercano e si rifiutano scambiandosi le identità e cercando nella letteratura le parole per esorcizzare la loro esperienza indicibile. In Ieri - ora limpidamente tradotto da Marco Lodoli - per la prima volta non è più questione dei gemelli Claus e Lucas, ma l'io narrante che prende il loro posto sembra un loro terzo fratello ideale. Anch'egli è lacerato tra due identità, quella reale di Tobias Horvath e quella fittizia di Sandor Lester che nella frontiera aperto dalla mina su cui è saltato il loro padre e l'altro rimasto in patria, si cercano e si rifiutano scambiandosi le identità e cercando nella letteratura le parole per esorcizzare la loro esperienza indicibile. In Ieri - ora limpidamente tradotto da Marco Lodoli - per la prima volta non è più questione dei gemelli Claus e Lucas, ma l'io narrante che prende il loro posto sembra un loro terzo fratello ideale. Anch'egli è lacerato tra due identità, quella reale di Tobias Horvath e quella fittizia di Sandor Lester che ha assunto in Occidente per troncare ogni legame col suo passato; anch'egli ha vissuto un'infanzia mortificante da cui ha creduto di liberarsi attraverso il parricidio; anch'egli scrive nella lingua del Paese in cui si è rifugiato. A differenza dei due gemelli però, non scrive per capire e per capirsi, ma per dare corpo ai fantasmi che popolano tutto un versante della sua esistenza di borderline e sono sempre pronti a risucchiarlo nell'alienazione e nell'autodistruzione. Della sua vita precedente ha serbato netti i ricordi e di uno in particolare ha fatto una sorta di ragione di vita: Line, la compagna di scuola che ha amato prima di sapere che era figlia del suo stesso padre e che continua a cercare - e a volte crede di trovare - in ogni giovane donna. Fino a quando la vera Line miracolosamente compare e l'ieri rimpianto e sognato non gli concede una fugace, struggente reviviscenza. Nel mondo cupo e ossessivo di Agota Kristof si apre dunque - con la tenerezza, con la passione e con un finale agrodolce - un tenue spiraglio di luce. Ancora una volta però, senza che la scrittura apparentemente ne risenta. Pochi scrittori sanno infatti raccontare vicende tanto tortuose e suscitare emozioni tanto profonde con una simile parsimonia di mezzi, lesinando sugli aggettivi, portando Agota Kristof ogni frase il più vicino possibile all'essenziale ossatura di un soggetto, un predicato e un complemento, ricorrendo a nude battute di dialogo e astenendosi rigorosamente non solo da ogni abbellimento, ma anche da qualunque notazione esplicativa. E' come se, a forza di successive e sempre più severe decantazioni, i suoi libri - quattro in tutto e raramente superiori alle cento pagine - esprimessero una verità tanto profonda e sconvolgente da non avere bisogno non solo di lenocini, ma neppure di mediazioni verbali. E', naturalmente, un artificio retorico, che, rispetto agli altri, ha l'incommensurabile vantaggio di non apparire come tale. Lo stesso che Paul Valéry, sintetizzato nella formula «Tra due parole bisogna scegliere la minore», raccomandava ai giovani scrittori, senza immaginare che ci sarebbero voluti tanti anni e l'apertura multietnica e transnazionale della letteratura francese perché un'ungherese sapesse finalmente dargli ascolto. Giovanni Bogliolo

Luoghi citati: Milano, Roma, Svizzera