ATTENZIONE IL LAVORO NON E IL VALORE DELLA VITA di Dario Voltolini

IL CONSIGLIO IL CONSIGLIO di Dario Voltolini UN saggio di storiografia militante ridiscute l'importanza di quel movimento artistico e politico d'avanguardia che fu l'Internationale Situationiste. L'ha scritto Gianfranco Marelli (L'amara vittoria del situazionismo. Per una storia critica dell'lnternationale Situationiste 19571972. Bfs, pp. 396, L. 35.000). A partire dagli esiti teorici di derivazione surrealista, attraverso varie esperienze come il lettrismo e il gruppo Cobra, si giunge all'atto di fondazione del situazionismo a opera di Guy Debord nel maggio del 1957. La radicalità della posizione artistica e politica dei situaziónisti diede luogo a un complesso e intricato germogliare di posizioni teoriche, spesso reciprocamente in tensione. Marelli ripercorre il quindicennio situazionista in modo estremamente documentato e vivamente partecipe. Si tratta di una stagione storicamente conclusa, tuttavia la mole di questo libro e la passione con cui è stato scritto rivelano che per Marelli (insegnante, giornalista, più semplicemente anarchico - come si autodefinisce) ancora molto di quell'esperienza ha da essere disvelato sul piano teorico. E società economicamente mature hanno raggiunto imo stadio al di là del quale la possibilità di attuare mio sviluppo che passi attraverso una significativa espansione del lavoro è definitivamente preclusa». Su questa diagnosi categorica si fonda la soluzione del problema della disoccupazione teorizzata da Mazzetti, che insegna economia del lavoro presso l'Università della Calabria: ridurre il tempo di lavoro a parità di salario. Proposta, se si vuole, non proprio originale. Ma costruita con un insieme di argomentazioni la cui acutezza e organicità fa apparire gran parte di quanto correntemente si dice e si scrive in tema di disoccupazione - da sinistra non meno che da destra o dal centro - come uno stagno di nebbiose banalità. Di modo che uno può anche non trovarsi per niente d'accordo, alla fine, né con la diagnosi né con il rimedio avanzati dall'autore; ma se uno si sarà confrontato seriamente con le sue analisi, avrà fatto qualche buon passo per uscire dallo stagno e relative nebbie. La diagnosi di Mazzetti, è chiaro, viene da Marx, riletto e rimesso all'opera ai tempi della mondializzazione. Gli investimenti in mezzi di produzione aumentano la produttività e, facendo diminuire i prezzi, allargano i mercati. I mercati che crescono più della produttività aumentano anche l'occupazione. Ma quando i mercati raggiungono il punto di saturazione, l'incremento della produttività tramite nuovi investimenti, da cui il capitale non può astenersi perché è solo in questo modo che esso trova la sua remunerazione, produce per via naturale una disoccupazione crescente. E' mi inesorabile fenomeno strutturale, non congiunturale, che occorre riconoscere prima di pensare a qualsiasi intervento atto a ridurre le falangi dei senza lavoro o dei lavori sempre più precari. In tal stadio dell'evoluzione economica e sociale si determina una situazione in cui sono contemporaneamente presenti risorse economiche, risorse umane e bisogni sociali, che però non si incontrano. Hanno perso la capacità di farlo. La crescente forza produttiva del lavoro tende così a sfociare nell'im¬ poverimento generalizzato. Questo è già avvenuto su larga scala negli Anni 30, e il mezzo con cui le società occidentali seppero uscirne per un altro buon mezzo secolo fu lo Stato sociale. Non già, come oggi tritamente si ripete, mero strumento di tutela dei più poveri, ma bensì - come Keynes teorizzò e propose - agente sociale che dinanzi alle difficoltà del capitale, la cui abbondanza interferisce con l'abbondanza della produzione, si prende «una responsabilità sempre crescente nell'organizzare direttamente l'investimento». Senza Stato sociale, non vi sarebbe stato lo sviluppo capitalistico degli ultimi sessant'anni: una glossa da annotare, prima di continuare a segare il ramo su cui si è stati per tanto tempo seduti. Al presente, tuttavia, anche lo Stato sociale, stressato da fenomeni che sono demografici prima ancora che economici (nota di chi scrivej non dell'autore), non ha più la forza per sostenere tale ruolo di agente dell'investimento collettivo. Per combattere la disoccupazione occorrono nuove soluzioni. Mazzetti ne analizza tre, in un ordine che giudica di importanza ed efficacia crescenti: il reddito di cittadinanza; i lavori socialmente utili o concreti; la riduzione del tempo di lavoro a parità di salario. Le prime due possono fungere da complementi alla terza, ma solo questa è per l'autore la soluzione radicale. La sua efficacia si fonda sul principio che, in tal modo, la forza-lavoro viene nuovamente messa in grado di comperare il prodotto aggiuntivo generato dai continui aumenti di produttività del capitale investito e, per la sua logica interna, incessantemente reinvestito. Si torna così alla diagnosi su cui si fonda la proposta dell'autore: che nelle società avanzate non sia più possibile espandere significativamente il lavoro. Simile diagnosi, e con essa la soluzione proposta, appare però contraddittoria. Essa corre infatti sullo scrimine di due presupposti da dimostrare. Il primo è che gli immensi bisogni materiali dei Paesi più poveri, e delle vaste zone povere dei Paesi avanzati, non consentano anche a questi una nuova espansione del lavoro per un lungo periodo a venire, ora che tutto il mondo forma un imico sistema economico. Il secondo è che la contrazione del lavoro si sia arrestata, per motivi non chiari, di modo che la riduzione del tempo di lavoro non avrebbe conseguenze effimere ma durature. Tra i due presupposti, questo è anche più friabile del primo. Ma che piacere trovar ragioni di disaccordo, e non è facile, con un libro di questo spessore. Luciano Gallino ATTENZIONE, IL LAVORO NON E' IL VALORE DELLA VITA SOCIETÀ' SENZA LAVORO Dominique Mèda Feltrinelli pp. 296 L. 45.000 SOCIETÀ' SENZA LAVORO Dominique Mèda Feltrinelli pp. 296 L. 45.000 IAMO «una Repubblica fondata sul lavoro», afferma la nostra Costituzione. Ma il futuro ci riserva una Società senza lavoro, ammonisce Dominique Mèda, docente di filosofia all'Institut d'Etudes Politiques a Parigi. Che fare? La Mèda non si limita agli scenari già disegnati da Jeremy Rifkin (La fine del lavoro, Baldini & Castoldi '95). Nel suo saggio, in libreria dal 7 marzo per Feltrinelli, sferza i politici, li incita a riprendersi il primato sugli economisti, a non subordinare il problema ai vincoli della produzione, della tecnologia, della finanza. Rimette in discussione il «mito» del lavoro, come «valore fondante», come «rapporto fondamentale» nella società industriale-capitalistica (un valore, come dimostra la densa sintesi teorica della Mèda - dai greci al cristianesimo, dal Rinascimento a Hegel - che data solo da due secob; un rapporto fatto proprio anche dall'opposizione marxiana e marxista). Piuttosto che continuare a invocare la liberazione del/dal lavoro, si tratta, secondo la Mèda, di «devalorizzare» il lavoro, di «indebolirlo» per assumerlo come una tra le possibili, diverse attività creative dell'uomo. Ma proprio per questo, la politica deve rimettere al centro «la scelta dei fini», un progetto di società da non lasciare appannaggio degli economisti, degli gnomi della City o dei funzionari di Maastricht. Del saggio della Mèda (in Francia, un piccolo bestseller, con oltre 15 mila copie vendute) anticipiamo qui un brano dal capitolo conclusivo. Come direbbe Chiambretti: comunque si legga, farà discutere. ATTUALE paradosso delle nostre società moderne - il fatto che potremmo ormai ridurre la coercizione che esercita su di noi il lavoro, ma non ci risolviamo a farlo, ovvero il fatto di aver inventato di sana pianta e mantenuto una categoria specifica, quella di disoccupazione, che significa semplicemente che il lavoro è la norma e l'ordine delle nostre società - ha costituito il primo motivo di stupore da cui è nato il presente volume. Tale paradosso mostra che il lavoro rappresenta per le nostre società molto più di un rapporto sociale, molto più di un modo di distribuire le ricchezze e di raggiungere un'ipotetica abbondanza. In realtà, il lavoro si è caricato di tutte le energie utopistiche che su di esso si sono fissate nel corso dei due secoli passati. E' «magico», nel senso che esercita su di noi un «fascino» di cui oggi siamo prigionieri. E' necessario rompere al più presto questo sortilegio, disincantare il lavoro. Quando Weber utilizzava l'espressione «disincanto del mondo», si riferiva al risultato di un processo storico ma anche di un'azione volontaria: l'eliminazione della magia in quanto tecnica di salvezza era contemporaneamente un procedimento cosciente, iniziato dai profeti ebrei e continuato da Calvino, e la conseguenza delle scoperte scientifiche che, poco a poco, avevano rivelato un mondo vuoto, disabitato, senz'anima, un mondo attraverso il quale Dio non si manifestava più all'uomo, un mondo sprovvisto di senso. Disincantare il lavoro presupporrebbe da parte nostra una decisione che prendesse atto di un'evoluzione storica in base alla quale «l'utopia legata alla società del lavoro ha esaurito la sua forza di persuasione». Disincantare il lavoro implicherebbe da parte delle nostre società una decisione dolorosa e rischiosa, tuttavia rifiutarsi di prenderla sarebbe ancora più grave. Cosa ci manca per arrivare a prendere una decisione come questa? Oggi sentiamo dire che mancano le forze sociali dalle quali potrebbe trarre sostegno una riforma oppure un nuovo atteggiamneto delle élite incapaci di rompere con un freddo conservatorismo. Ci sembra che, più profondamente, manchi anzitutto una genealogia convincente che metta in evidenza il motivo per cui il lavoro si è trovato così investito di tutte le speranze; secondariamente, un luogo di ricambio in cui proiettare le nostre energie utopistiche. [...] Le nostre società si rivelano, paradossalmente ma profondamente, marxiane: tutto è lavoro, l'impiego è morto, viva l'attività. Perché anche in Marx la società si manifesta nella forma del servizio e la distinzione tra lavoro e attività libera è scomparsa. La sola differenza con la società vagheggiata da Marx è che abbiamo lasciato che i nostri scambi conservassero un carattere mercantile, senza considerare tuttavia che ciò impedirà alla nostra società di essere perfettamente conviviale e realizzante. Come Marx, la nostra società crede che la più nobile manifestazione dell'uomo sia il lavoro, che ogni attività sia chiamata a diventare lavoro. Di qui la determinazione cui il presente libro vuole criticare quei pensieri in anteprima un saggio della filosofa francese Meda: «L'uomo non si può ridurre a produzione, tecnologia e consumi» che confondono, come Marx, il modo storicamente determinato in cui l'uomo lia valorizzato il mondo negli ultimi due secoli e quella che i tedeschi hanno chiamato cultura. Il primo è solo mia parte della seconda. Di conseguenza, considerare lo sforzo creatore, la costrizione, il dolore connesso alla messa in forma, la riflessione, la scrittura, la politica come un lavoro; dire che occorre salvaguardare il lavoro in nome di una certa idea dell'uomo come essere capace di sforzo e creazione; affermare che se si esce dal lavoro si ricade nei rapporti privati, significa commettere mi grave errore storico. E lo commettono appunto tutti coloro per i quali l'impiego o il lavoro salariato sono solo una delle forme che può assumere il lavoro, perché quest'ultimo copre un campo assai più vasto. Non si tratta solo di mi problema di parole. Confondere cultura e lavoro, significa dimenticare che la vita è anche azione e non soltanto produzione, significa far correre il rischio alle nostre società di concepire la vita umana solo come un consumo Karl Marx Le nostre società sostiene Dominique Mèda, si rivelano, paradossalmente ma profondamente, marxiane: perché hanno ridotro tutto a lavoro, e non sanno quindi immaginare una società in cui il lavoro viene meno di sé. Così si spiega d'altronde l'idea di piena attività, presentata oggi come soluzione al problema della disoccupazione. Se non tutti possono accedere all'impiego ma tutti devono avere diritto al lavoro, basta allargare il campo di ciò che viene riconosciuto come lavoro, ci viene detto. Dopo avere ridotto teoricamente la cultura (o la formazione di sé) al lavoro - in particolare, attraverso Marx - la logica delle nostre società è ormai quella di far assumere realmente a tutte le attività la forma del lavoro. Questa confusione è troppo pesante e troppo grave: dovremmo smettere di chiamare lavoro quel «non so che» in cui consisterebbe la nostra essenza, e piuttosto chiederci attraverso quale altro mezzo potremmo permettere agli individui di avere accesso alla sociabilità, all'utilità sociale, all'integrazione tutte cose che il lavoro ha potuto e potrà ancora senza dubbio offrire, ma non più certo in maniera esclusiva. Il problema non è dunque dare una forma-lavoro ad attività sempre più numerose, ma al contrario ridurre l'ascendente del lavoro per permettere ad attività dalle logiche radicalmente diverse, fonti di autonomia e cooperazione vere e proprie, di svilupparsi. Disincantare il lavoro, liberarlo dalle aspettative troppo forti che abbiamo riposto in esso, e quindi considerarlo nella sua verità, implica un cambiamento radicale delle nostre rappresentazioni e persino della nostra terminologia. E' a queste condizioni che potremo, da una parte, libeiare uno spazio veramente pubblico in cui si eserciteranno le capacità umane nella loro pluralità e, dall'altra, riorganizzare il lavoro. Dominique Mèda Una rivoluzione familiare nel North Carolina UNA storia ambientata nel North Carolina, dove Kaye Gibbons è nata. Nella stagione in cui «quel comunista di Martin Luther King non sa stare al proprio posto», Maggie Barnes mette a soqquadro una società conformista. Un intero sistema economico, familiare e sessuale viene scardinato In primo piano: madre e figlia. Traduzione di Edmondo Bruscella. // sindacalo

Luoghi citati: Calabria, Francia, North Carolina, Parigi