NEWYORKER: TEMPI E METODI DELL'OFFICINA LETTERARIA di Piero Soria

NEWYORKER: TEMPI E METODI DELL'OFFICINA LETTERARIA NEWYORKER: TEMPI E METODI DELL'OFFICINA LETTERARIA Un giorno nella celebre rivista americana: 900 mila copie Il disegno di copertina di uno degli ultimi «New Yorker» Nella foto piccola: la direttrice Tina Brown NEW YORK EDAZIONE del New Yorker, una del pomeriggio: un orribile oggetto indiano con tre teste d'elefante, alto pressappoco mezzo metro, resta a guardia della scrivania di Bill Buford dove sono appena arrivati il manoscritto del libro scandalo dell'anno, TheKiss di Kathryn Harrison, il brogliaccio di un lungo pezzo di Michael Ignatieff sulla Croce Rossa e lo stato del mondo, e mi brano del saggio che V. S. Naipaul sta scrivendo sull'Iran, tutti destinati a uscire sul New Yorker in anteprima, nella forma, la lunghezza e il taglio che sceglierà per loro quest'uomo simpatico e barbuto di 42 anni, braccio destro del direttore Tina Brown. «E quell'incrocio tra un panchetto e una statua di Ganesh?». «Regalo di mia madre, assolutamente spaventoso» risponde Buford mentre ci avviamo a pranzo. «In questa redazione hanno tutti una tale ossessione con lo stile - basta vedere le lampade con cui si arredano gli uffici - che non ho saputo resistere». Quello a cui non sa resistere Bill Buford è calarsi sempre nella parte del bad boy: il ragazzaccio che inventa un successo editoriale come Granfa e fa impazzire i suoi illustri collaboratori - da Salman Rushdie a Ian McEwan a Nick Hornby («Lo so: vorrei essere un ragioniere beneducato, preciso e controllato»); che con le sue scelte editoriali manda in bestia le donne («E' che non scrivono molto bene, le pare?»); che ama l'alcol e sogna di andare a caccia di balene per scriverci sopra mi libro («Non un soggetto molto politicai correct», se la ride il suo amico Amitav Ghosh); e che da quando due anni fa ha lasciato la direzione di Granta ed è arrivato a New York - lui che è americano cresciuto in California dice che l'Inghilterra dove ha vissuto 17 anni gli manca nonostante «tempo e sesso pessimi», perché qui, in questa città culturalmente «aperta, vivace, che non ti permette di invecchiare», ogni occasione sociale ruota solo intorno al lavoro. Risultato: «In due anni a New York ho visto le feste peggiori e le persone più noiose della mia vita». lo stato della narrativa americana, per fare il punto sulle tendenze della saggistica, e per scoprire il segreto che fa del New Yorker, a dispetto delle furiose polemiche che accompagnano questa direzione, la più prestigiosa rivista letteraria del mondo. «Dunque?». «Dunque lo ammetto, quando sono arrivato nell'aprile del '95 era difficile sottrarsi alla sensazione di trovarsi in un momento di interregno», risponde Buford con imo sguardo furbo dietro le lenti degli occhiali, «in cui la fiction non rappresenta più la scrittura migliore, e la cosiddetta narrativa alta è piuttosto grama. Tuttavia, credo che stiano venendo fuori dei giovani autori con una voce molto personale, come per esempio Junot Diaz, Rick Moody o Jeffrey Eugenides, la cui presenza coincide con le più grafiche, cliniche descrizioni di sesso infelice o estremo. Sesso, per capirci che non produce bambini, e non parliamo di amore». Qualche protesta, le lettere di di Tutto questo ce lo diciamo andando all'Hotel Royalton dove quell'altro ragazzaccio di Philippe Stark ha disegnato l'albergo e il ristorante più alla moda, editorialmente parlando, della città: «La mensa della Condè Nast», scherza Buford, osservando che siamo circondati da un buon numero di direttori di testate, incluso 0 suo boss Tina Brown, freddissima e graziosa. Bene. Siamo qui per parlare del¬ lo stato della narrativa americana, per fare il punto sulle tendenze della saggistica, e per scoprire il segreto che fa del New Yorker, a dispetto delle furiose polemiche che accompagnano questa direzione, la più prestigiosa rivista letteraria del mondo. «Dunque?». «Dunque lo ammetto, quando sono arrivato nell'aprile del '95 era difficile sottrarsi alla sensazione di trovarsi in un momento di interregno», risponde Buford con imo sguardo furbo dietro le lenti degli occhiali, «in cui la fiction non rappresenta più la scrittura migliore, e la cosiddetta narrativa alta è piuttosto grama. Tuttavia, credo che stiano venendo fuori dei giovani autori con una voce molto personale, come per esempio Junot Diaz, Rick Moody o Jeffrey Eugenides, la cui presenza coincide con le più grafiche, cliniche descrizioni di sesso infelice o estremo. Sesso, per capirci che non produce bambini, e non parliamo di amore». Qualche protesta, le lettere di disdetta dell'abbonamento si sono moltiplicate. Ma ci vuol altro per rovesciare la fortuna di un settimanale non illustrato che riesce a vendere 900 mila copie («raggiungendo probabilmente tutte le persone che in America leggono», ironizza Buford), riceve 500 manoscritti la settimana, e ha un peso determinante nella formazione culturale dell'America. «Le voci sull'imminente ritiro di Tina Brown?». «Infondate». Buford, braccio destro di Tina Brown: «2000 manoscritti al mese, articoli da 40 milioni, ma riscriviamo tutti, comprese le celebrità» «Quelle secondo cui state perdendo 24 milioni di dollari l'anno?». «Altrettanto: nel '96 ci siamo avvicinati al pareggio e nel '97 ci aspettiamo di andare in attivo». Buford sa benissimo che essendo il New Yorker privato - proprietà di S. I. Newhouse, editore di Condè Nast e Random House con tutti i loro satelliti - può dire quello che vuole perché le cifre restano comunque segrete e inaccessibili. Si sa invece per certo che il New Yorker paga molto, un dollaro e mezzo a parola, cioè, per un articolo in ottima prosa e di normale (per loro) lunghezza, tra i trenta e i quaranta milioni. Calma: a fronte di una montagna di lavoro. «L'iter normale è che ogni pezzo viene letto, sottoposto a modifiche, riscritto, sottoposto ad altre modifiche, riscritto di nuovo, e poi viene tagliato e cucito. A questo punto a Granta verrebbe pubblicato. Invece qui entra nel sistema. C'è un copy editor che lo passa al setaccio e annota minuziosi suggerimenti per migliorare espressioni o evocare regole grammaticali che nemmeno sapevi esistessero. Ci sono due okayer che lo scrutinano ancora parola per parola vedendo se qualcosa può essere detto meglio, e uno, due o tre faci checker, secondo l'ampiezza del pezzo, che verificane tutti i dati e i fatti riportati. Ognuna di queste persone produce ima copia di bozze con i propri suggerimenti, che sono infine esanimati dall'editor e eventualmente presi in considerazione. E a dispetto di tutto questo, è un giornale veloce. Un'idea che hai avuto il lunedì puoi trovartela già in pagina la domenica». Nessuna grande firma a detta di Buford sfugge al «sistema», né quei giovani della generazione emergente, né gli scrittori come Tobias Wolff, Mary Karr, Nick Hornby, Blake Morrison che oggi trovano nelle proprie memorie quello che una volta avrebbero cercato nella narrativa. Tra questi ci sono i «ca¬ si» del momento, dallo straordinario Frank McCourt, che presto sarà tradotto in Italia da Adelphi («L'anticipazione di Angela's Ashes ha avuto un enorme effetto di passaparola»), al racconto del giovane dominicano Junot Diaz tratto da Drown (in preparazione da Bompiani); a una storia durissima di Lorrie Moore, costretta a scrivere sul cancro che ha colpito il suo bambino per procurarsi i soldi per le cure. «La mia passione va tutta al narrare», dice Buford che non vuol fare distinzione tra saggistica e narrativa, «come primaria unità di memoria e come uno dei modi in cui diciamo a noi stessi chi siamo». Per lui nella sua forma più elementare una scrittura narrativa forte deve essere un atto di seduzione: giocare col lettore, stimolare il suo desiderio di conoscere di più. «Quelle di Kathryn Harrison a cui ho cominciato a lavorare oggi», prosegue leggendoci nel pensiero, «sono le memorie che metteranno fine a tutte le memorie». Si parla molto di questo libro che a settembre uscirà da Garzanti: la storia di quattro anni di passione incestuosa tra l'autrice e suo padre, un uomo di chiesa. «Per scrivere una storia più trasgressiva bisognerebbe confessare di essere un serial killer, usando una prosa meravigliosa». ((Appunto: quella della Harrison che vi porterà polemiche e pubblicità a non finire, è poi così splendida?». «E' una storia forte, scritta da una vera scrittrice», risponde Buford sornione. Come bugia non c'è male. Vuota il suo vino e torniamo in redazione. Livia Matterà CRUZ SMITH: AMORE MISTERO E CARBONE LA ROSA NERA Martin Cruz Smith Mondadori pp. 387 L. 33.000 LA ROSA NERA Martin Cruz Smith Mondadori pp. 387 L. 33.000 ARTIN Cruz Smith deve essere stato profondamente affascinato dalla lettura dura e terribile de La strada di Wigan Pier di George Orwell (Oscar Mondadori, L. 12.000), gli occhi pieni di fumo e di polvere pirica in quell'inferno di inizio secolo che era il bacino carbonifero più disumano del West inglese, dove l'autore della Fattoria degli animali era andato ad esiliarsi in un poverissimo ricovero per cogliere - uomo tra uomini - la disperazione e la schiavitù di quelle facce perennemente nere, costrette a vivere (e più spesso a morire) nelle dolorose viscere di una terra esclusivamente matrigna. Un quadro fosco, di miseria e sfruttamento ma squarciata da lampi di vividi eroismi, di intensi amori, di profondi impeti e di ruvidi orgogli. Un fondale perfetto per chi - come Smith - ama ricostruire brandelli di società e di storia su cui far scorrere le sue detective story impetuose come fiumi. Ricordate la Russia di Arkady Renko (Gorky Park, Stella Polare, Piazza Rossa) ed i deserti indiani dell'autista hopi di Oppenheimer (Los L'Inghilterra vittoriana dell autore di «Gorky Park»: un giallo preindustriale nella Wigan di Orwell tra donne perdute e preti troppo desiderosi di salvarle UN BRANO Ragazze di miniera LA prostituta, almeno, ricopre nella società un ruolo tradizionale. E' una donna perduta, forse debole, forse depravata, di solito povera e ignorante, che impegna ciò che ha di più prezioso per poche monete. Una creatura patetica ma comprensibile. Le ragazze di miniera di Wigan rappresentano invece una minaccia molto più grave, e per due ragioni. La prima è che hanno tradito la propria sessualità. L'hanno negata e deviata. Una prostituta almeno è una donna. Ma che cos'è una ragazza di miniera? Ho visto le loro fotografie che si vendono in tutta l'Inghilterra. Figure stravaganti che indossano pantaloni da uomo, che fissano l'obiettivo con sguardo virile. La reazione di ogni donna perbene non può essere che di ripugnanza e di disgusto. Ed è anche la reazione istintiva delle donne perdute. La seconda ragione è che le ragazze di miniera fanno un lavoro che dovrebbero fare gli uomini. Non c'è altro esempio nell'Inghilterra industriale di donne che si sobbarchino fatiche riservate al sesso più forte e più responsabile. Comportandosi così, esse rubano cibo non soltanto agli uomini ma alle famiglie di questi uomini. Mogli e bambini sono le loro vittime, ma i padroni delle miniere fingono di ignorare le loro sofferenze perché una ragazza di miniera la pagano meno di un uomo. Già due volte il Parlamento ha cercato di scacciarle dalle miniere e non c'è riuscito, e il risultato è che si sono fatte ancora più sfrontate. Ma stavolta non possiamo fallire. Cristo mi ha affidato questa crociata. Martin Cruz Smith Alamos)? Erano personaggi e luoghi dell'universo fotografati in corsa, mentre tutto intorno a loro stava cambiando e nulla sarebbe più rimasto come prima. La stessa cosa succede per la nuova Wigan ed il Jonathan Blair (anche lui nuovo di zecca) de La rosa nera mentre il 1937 orwelliano si trasforma in un tumultuoso 1876 vittoriano. Il plot è doverosamente esile, un sentiero appena tracciato, tale però da permettere all'autore di scandagliare ogni angolo segreto di quel mondo sconosciuto. Jonathan è un ingegnere minerario americano appena richiamato dall'Africa dove si è meri- tato il sopprannome di Blair il Negro per via dei suoi teneri rapporti con le donne di colore. A volerlo in Inghilterra è il vescovo Hannay, lord di Wigan, da generazioni padrone delle minere e degli opifici della città, presidente della Royal Geographic Society. Il problema di Sua Grazia è delicato: il promesso sposo di sua figlia Charlotte - il nullatenente reverendo Maypole - è scomparso da qualche tempo senza lasciar traccia. Radicale e con la disdicevole tendenza a voler redimere le ragazze di miniera - svergognate in pantaloni, con solo una parvenza di gonna arrotolata in vita, le braccia nude, Linguaggi, atteggiamenti e lavoro da uomo, per la morale corrente più pericolose di una prostituta a causa del loro prefemminismo - compone con la scriteriata ed irragionevole Charlotte - a sua volta fondatrice e direttrice della «Casa Wigan per donne nubili che hanno ceduto alla tentazione per la prima volta» - una coppia vagamente pericolosa, sempre in odore di scandalo, non tanto per quello che sono ma per quello che fanno. Un'indagine ufficiale potrebbe sollevare veli poco graditi. Meglio quindi ui^a ricognizione I ^ gI l confidenziale, garantita - anzi: blindata - dalla promessa di un ritorno all'Africa tanto amata nel caso di successo. Blair l'avventuriero incomincia così il suo cammino tra le fiamme delle ciminiere ed il nero dei pozzi come una sorta di Virgilio yankee nel girone dei dannati. Ed il fuligginoso presepe che ne emerge è la vera forza del romanzo. C'è Rose Molineux, la misteriosa ragazza di miniera che fa innamorare Blair (e che forse ha fatto anche innamorare il curato sparito) e che posa per fotografie ardite nella loro innocenza; c'è Bill Jaxon, che la con4 sidera di sua proprietà, campione invincibile di duelli all'ultimo sangue in una sorta di kickboxe in cui i piedi sono armati da zoccoli col puntale di ferro; c'è Chubb, il pastore sicofante e moralista; c'è Earnshaw, il membro del Parlamento, il cui unico scopo sembra essere rimettere gonna e sottomissione alle donne di Wigan; ci sono il direttore di miniera, il guardiano, l'mterminabile fila di volti neri che picconano tra i miasmi del grisou, attenti all'allungarsi o all'impallidire di una fiammella. C'è infine la famiglia del vescovo, lassù, nel paradiso delle classi, a guardare magnanima dall'alto che cosa succede nell'inferno, tratteggiata con la sottile ironia dell'americano che - ottenuta con le armi democrazia e libertà nell'ex colonia - ha superato i riti del potere ottocentesco che ancora assurdamente dominano l'isola madre sconfitta dai padri pellegrini. Sullo sfondo: malaria, birra, fatica, sudore, tragedia (lo scoppio in numera), coraggio e una sconfinata fede nell'uomo, ben superiore a quella in un Dio tradito dai suoi preti. Piero Soria >