Silenzio assordante sulla Tienanmen di Enzo Bettiza

Silenzio assordante sulla Tienanmen Silenzio assordante sulla Tienanmen Deserta la piazza dei grandi lutti, ordine di Jiang PECHINO DAL NOSTRO INVIATO Nel giorno della cerimonia funebre per l'ultimo congedo offerto dal partito e dallo Stato, al suono dell'Internazionale, alle ceneri ancora calde di Deng Xiao Ping, ho voluto dare un'occhiata alla piazza più sterminata, più politicizzata e più tragica del mondo. Come tutti sanno, la piazza si chiama Tienanmen. E, come tanti certamente hanno appreso da qualche lettura, essa è stata per millenni il centro misterioso e inaccessibile dell'Impero arcaico prima di diventare, dal 1949, il cuore pulsante e talora infartuato dell'Impero comunista. Qui si ergono, dominando frontalmente la piazza, le mura rossicce della Città Proibita dove nell'invisibilità più invisibile vivevano gli imperatori. Essi erano circondati da uno stuolo di servitori privilegiati che non dovevano mai osare di fissare gli occhi di colui che si considerava un inviato speciale del cielo sulla volgare crosta terrestre: ministri, mandarini, militari, eunuchi e concubine. Una minore e più concentrata cittadella proibita, chiamata Zhongnanhai, incastrata proprio a scatola chiese dentro il fianco occidentale della città maggiore, è stata per decenni il ghetto di lusso in cui abitò, circondato pure lui da dignitari e concubine, il primo imperatore comunista e contadino. Mao Zedong. Il secondo imperatore comunista, Deng Xiao Ping, visse solo per qualche tempo nel quartiere nomenclaturizzato di Zhongnanhai. Poi, non piacendogli il luogo e non sentendolo sicuro, si trasferì in una casa a prova di bomba, situata fuori dalle mura rosse nel colore e celesti nel simbolo. Un tocco in più, anzi una svolta decisiva in più, in quel processo di secolarizzazione e disinfestazione della sacralità pechinese che è, e probabilmente resterà, uno dei tratti distintivi del riformismo denghista. Torniamo e. Tienanmen. Vi sono andato la sera. Era già notturna e molto gelida. La piazza mi è apparsa spettrale: un de¬ serto nell'immensità del buio fiocamente strinato, qua e là, dai raggi di qualche lampione lasciato quasi casualmente acceso. L'unico squarcio di luce più intenso, in tanta oscurità silenziosa e vuota, l'eterno ritratto a colori fosforescenti di Mao, infisso sulla Porta della Pace Celeste. Il fantasma del «Grande Timoniere» pareva contemplare, sbalordito, il deserto che si offriva senza vita e senza rumori al suo sguardo solitario. La morte di Mao, e poi i funerali, nel lontano settembre del 1976, erano avvenuti in un ben diverso clima di cordoglio pubblico e di tenebrosi drammi intestini. Sulla stessa Tienanmen, davanti allo stesso tetto sopra il portale d'accesso alla Città Proibita dal quale aveva annunciato la nascita della più popolosa Repubblica comunista del mondo, nel giorno delle sue esequie decine di migliaia di cinesi gremirono in un formicaio isterico ogni pietra ed ogni angolo della piazza. Tutti con fascia nera al braccio e mazzi di fiori bianchi in mano. Nelle stesse ore, dietro la vicina cinta della cittadella di Zhongnanhai, si consumava l'agonia civile della terza moglie di Mao, l'assatanata Jiang Qing, e dei paranoici complici mafiosi di lei meglio noti come «banda dei quattro». La folla orfana piangeva, si strappava le vesti invocando il nome di Mao, mentre Deng Xiao Ping e i generali che lo sostenevano colpivano a morte la «vedova nera» e il malfamato gruppuscolo del vertice maoista. La vera imbalsamazione del grande distruttore, il cui cadavere era già nelle mani e negli acidi degli imbalsamatori, si compiva in realtà nel momento in cui il suo testamento rivolu- zionario veniva svuotato degli eredi che avrebbero dovuto incrementarlo. L'imbalsamazione chimica della salma, che un anno dopo sarebbe stata esposta nel mausoleo ai limiti della Tienanmen, era un atto di devozione magica e ipocrita nei confronti di una mummia a cui la Cina di Deng stava già voltando la schiena. Difatti, gli stessi che avevano finto di piangere il morto nel 1976, già ne deprecavano il ricordo nel 1977. Come nella loro gastronomia totale, in cui tutto ciò che è commestibile viene usato e consumato, così anche nella loro gastronomia politica i cinesi tendono a non buttare niente e nessuno nella pattumiera: conservano il bene e il male, il gustoso e il disgustoso, l'anatra saporita e il cane schifoso, con la stessa indifferenza vorace ed emblematica ad un tempo. Il principio è ecumenico. Tutto fa brodo, tutto è digeribile, anche l'animale meno appetibile. I sottili equilibri ideologici possono spiegare, solo fino ad un certo punto, la duratura conservazione della mummia nel Pantheon dei fondatori della patria. La spiega meglio però, la fisiologia onnivora incrementata nei cinesi dalle recidive carestie della loro povertà millenaria. Anche nell'evento funebre di Zhou Enlai, sostenitore anguillesco di Deng, gran mandarino del machiavellismo asiatico, la piazza di Tienanmen sembrò scaldarsi. Scaldarsi sul serio, una volta tanto. Quando il fascinoso Zhou morì nel gennaio del 1976, ovvero otto mesi prima di quel Mao ch'egli servi sempre con duplice lealtà, la folla parve davvero impazzire e rivelare, per un attimo, i suoi repressi sentimenti di avversione per il maoismo e i maoisti. Mentre Mao era già uno scheletro sulla sedia a rotelle, le folle, non facendone mai il nome, presero a invocare Zhou, a maledire la «strega» di Shanghai e la «banda dei quattro» che l'appoggiava. La polizia dovette intervenire per interrompere una manifestazione che già sembrava preannunciare quella libertaria del 1989. Inni a Mao. Lagrime per Mao. Pianti per Zhou. Invettive contro la moglie di Mao. Maledizioni sulla «banda dei quattro». Dazebao liberali sul famoso «muro della democrazia». Tutto questo si è svolto, dal 1949 ad oggi, sulla piazza delle grandi utopie, delle grandi aspettative e delle grandi ambiguità cinesi. Come spiegare allora che oggi, nel giorno del funerale del piccolo grande imperatore Deng, nessuno, o pochi avventizi, siano venuti a manifestare sulla storica piazza? Come spiegare tanto distacco, tanta apparente indifferenza, per un personaggio che, rispetto a Mao, ha dato più bene che male alla Cina e ai cinesi? Le spiegazioni possono essere diverse. Da un certo rancore degli ancora giovani per il massacro di Tienanmen, fino ad una certa prudenza politica innata nei più anziani, la scarsa partecipazione al cordoglio per l'uomo che ha ridato pane e serenità alla Cina potrebbe essere attribuito all'opera di scoraggiamento pubblico messa in atto, per l'occasione, dalle autorità. Ovunque c'è stata troppa folla, troppo colore bianco o nero, la polizia è garbatamente intervenuta frenando i dimostranti: le dimostrazioni si sa perché cominciano, ma non si sa mai dove possono finire. Proprio su questa piazza ormai leggendaria, una signora, che esibiva un grande cappello ornato da un garofano bianco, è stata sommessamente invitata da un agente a togliere il fiore. Il candido colore del lutto cinese può essere mostrato in pubblico solo con l'autorizzazione del poliziotto. Ma la spiegazione più profonda, quella clic sfiora i limiti dell'inconscio collettivo, è forse ancora un'altra: l'urto laico, dissacrante, raziocinante, prodotto dalla rivoluzione denghista svigli spiriti e le mentalità dei connazionali. Deng, più di Mao, visse da autentico imperatore; e vero che lascio il ghetto del privilegio di Zongnanliai, è vero che andò a vivere lontano dalle città proibite, ma è anche vero che proprio nella sua fuga dalla convenzione imperialcomunista si manifestò il suo più autentico spirito imperiale. Ultimo imperatore laico, abbandonò le mura e i simboli delle dinastie rosse e celesti per imporre, protetto dall'invisibilità regale, la maggiore delle rivoluzioni moderne che i cinesi abbiano mai conosciuto da migliaia di anni. Dopo Deng, non ci saranno altri imperatori. Ci sarà l'economia e forse, un giorno, anche la democrazia. Il lascito riformatore di Deng, al contrario di quello utopico dì Mao, è stato duplice. Egli, rifiutando la mummificazione, esigendo l'incenerimento ateo, ha fatto intendere che l'ossessione dinastica e divina finiva con lui nell'Impero di Mezzo. Finiva, però, per decreto imperiale; quel decreto che, fra le altre cose, obbligava da sempre i cinesi a non fissare negli occhi il discendente degli dei, a non disperarsi della sua fine, a non versare lagrime di coccodrillo sulla sua salma. Il senso dell'odierna silenziosa notte di Tienanmen è, essenzialmente, qui. Deng ha fatto capire: l'imperatore, soprattutto quando è l'ultimo, non lo si cosparge di pianti teatrali nell'attimo del trapasso; il riformatore, soprattutto quando è il primo, lo si celebra nel silenzio e nella quiete dell'anùuo. Enzo Bettiza IL CORDOGLIO INVISIBILE

Luoghi citati: Cina, Città Proibita, Pechino, Shanghai