La rivoluzione incompresa di Enzo Bettiza

La rivoluzione incompresa La rivoluzione incompresa E un giorno disse: arricchitevi IL miracolo più impressionante è che la Cina diventa, nel giro di sei anni dal decollo, la prima produttrice al mondo di cereali e di cotone: con un'area coltivabile che rappresenta il 7 per cento di quella terrestre essa risolve, così, il problema cibo e vestiario per il 22 per cento della popolazione terrestre. Non s'era mai visto un fenomeno simile nella storia cinese. Non a tutti in Occidente piace la portentosa trasformazione realizzata in così breve tempo da Deng. Una Cina sempre più esplosiva sul piano demografico, più dinamica su quello economico, più potente su quello militare, e pur sempre dominata da un partito comunista, non rappresenterà a medio termine un rinnovato «pericolo giallo» per la stabilità internazionale del Duemila? Altri rimpiangono invece la Cina alternativa, la Cina tellurica, la mwm^amnm Cina drogata dall'oppio ideologico che dava l'assalto al cielo col fucile e col libretto rosso. Altri ancora storcono il naso per l'assenza della «quinta modernizzazione», la democrazia pluralistica di tipo europeo o americano. Certo, rischi e pericoli ci sono. Lo si è visto col massacro di Tienanmen e poi con le minacce d'invasione nei confronti di Taiwan. Ma, fin dall'inizio della svolta, ci sono state anche molte semplificazioni moralistiche e molte insinuazioni catastrofiste. Si è per esempio detto che, dal 1977 in poi, la Cina passa non dalla dittatura alla libertà, ma soltanto da un totalitarismo anarcoide e capriccioso ad un autoritarismo consumistico e corrotto. Osservazione quanto mai approssimativa, mutuata da una scala di valori e pregiudizi eurocentrici. Fatto è che le nostre abituali unità di misura, rivoluzionarie o liberali che siano, non possono attagliarsi alla dismisura asiatica e millenaria della Cina. In altre parole, le consuete categorie mentali europee non riescono a penetrare i meccanismi insieme antichi e moderni del capitalismo confuciano, che, da Singapore al continente cinese, ormai assimila in un'omogenea concezione di sviluppo le tigri maggiori e minori del cosiddetto «Pacific Rim»; concezione in cui legge di mercato e principio d'autorità si coniugano, in cui nega- Dopo ileguali cinesiritrol'indivi terrore tario hanno vato dualità zione della libertà politica e concessione della libertà privata si compendiano, in cui la componente democratica e pluripartitica di tipo occidentale è insomma irrilevante o inesistente. Abbandonandoci ad un facile moralismo democraticistico rischiamo di pretendere, un'altra volta, dalla Cina quello che la Cina non può dare: dopo la società di Utopia, il Parlamento di Westmmster. La riduttiva ottica esterna ha inoltre indotto diversi osservatori in un altro grave errore di valutazione storica. Né i delusi goscisti occidentali, né gli iperliberali esigenti, hanno voluto tenere debito conto della disastrosa tabula rasa da cui Deng dovette decollare nell'intento di emancipare un miliardo di individui dall'inedia cronica, dall'anonimia collettiva, dall'insicurezza personale e familiare. La quarta rivoluzione denghista era w«ws*ssm$s fi11 dall'inizio ^^^^^^m qualcosa di molto più profondo di un semplice ritorno alla prosperità e alla normalità alimentare: essa è stata, prima d'ogni altra cosa, un ritorno dal nichilismo all'umanità. Sotto la sferza costruttiva di Deng, dopo un decennio di terrore indiscriminato e di egualitarismo teppistico, la Cina traslocava dal formicaio coatto delle tute blu a una comunità di esseri viventi che alfine riprendevano possesso del proprio volto e delle proprie diversità individuali. La prosperità è stata l'inevitabile effetto collaterale della riconversione dalla formica all'uomo. La libertà di movimento, d'impresa, di commercio, stimolata e garantita dall'alto, in un clima di relativa tranquillità legale, faceva rinascere dal fondo delle campagne e dei sobborghi urbani l'atavico individuabsmo cinese incline alla vocazione mercantile e al benessere del nucleo familiare. Si spandeva nei villaggi il fenomeno delle «famiglie specializzate», o «famiglie da diecimila yuan», che combinavano all'iniziativa agricola l'impresa artigianale e talora quasi industriale. «Il commercio esisteva già ai tempi di Confucio»; «Il mercato non è un'invenzione occidentale»; «Diventare ricchi è glorioso». Gli incitamenti, pronunciati con enfasi mercantilistica dallo stesso Deng, non potevano essere più espliciti, più consoni alla mentalità cinese, più controcor¬ rente rispetto al «creativo» pauperismo di massa celebrato dai maoisti. Insomma il «piccolo timoniere», quasi uno gnomo nell'aspetto, è riuscito a smuovere nei fatti concreti quelle montagne che il «grande timoniere» smuoveva soltanto nelle sue allucinazioni liriche. Gnomo, non certo nello spirito, ma nel fisico sì. Ai tempi eroici della guerra civile, quando il giovane Deng, alto appena un metro e mezzo, partecipava alle riunione di partito nelle caverne tufacee di Yenan, Mao, che era piuttosto alto, non riusciva neppure a scorgerlo fra gli astanti. Il giorno in cui mise a fuoco l'omuncolo, lo avvicinò e gli parlò ricavandone subito un'impressione forte e inquietante. E sentenziò: «Attenti a quel minuscolo Deng. C'è un pungiglione d'acciaio dentro quel batuffolo di cotone». Chi era in ve- rita il batuffolo con l'aculeo dentro? Nell'ora della morte ufficiale il bilancio biografico del piccolo grande uomo appare uno dei più densi e più contraddittori del secolo. 93 anni di vita, di cui 22 spesi da capo militare e politico nelle guerre contro i giapponesi e il Kuomint.ang di Ciang Kai-shek; 10 patiti quale paria «revisionista» nell'umiliazione del lavoro manuale in campagna; 20 prodigati come ùnperatore appartato, mai chiaramente titolato, nel riuscito trasbordo della nazione più numerosa del mondo dalle morìe del maoismo ai successi e alle tensioni dell'«economia socialista di libero mercato». Luci e ombre, cadute e risalite, chiusure e asperture si sono continuamente intrecciate nella sua carriera procellosa. Fu lui, nel 1957, quand'era segretario del partito, a gestire la repressione contro gli intellettuali proditoriamente invitati da Mao a svelare i loro sentimenti anticomunisti durante la famosa trappola dei «cento fiori». Fu lui, riemerso per la terza volta alla sommità del potere, a far parlare e poi tacere con la forza nel 1978 il «muro della democrazia» a Pechino. Fu sempre lui a dare l'ultimo miprimatur alla legge marziale che nel 1989 sfocerà nel massacro di piazza Tienanmen. La spietatezza mista all'indulgenza, con cui ha saputo alternare i carri armati della repressione e i carri dorati della Ma TOccontinrimpiail Paese dall'id Dopo il terrore egualitario i cinesi hanno ritrovato l'individualità Ma TOccidente continuava a rimpiangere il Paese drogato dall'ideologia Sapeva bene ciò che faceva: lo scontro non era con gli studenti ma nelle stanze del potere Elogiò i militari per la difesa del sistema ma chiarì che le riforme non si toccavano politico. Da Washington, Bush dichiarava di aver cercato di mettersi in contatto con i dirigenti cinesi, ma di non esserci riuscito. Era scomparso, soprattutto, Deng Xiaoping. In tutto il lungo periodo deÙa crisi a partire dal 19 maggio, proclamazione dello stato d'assedio, non si era fatto vivo. Era apparso per l'incontro con Gorbaciov il 15 maggio, e da quel giorno era svanito. Alla sua assenza faceva da contrappunto il prepotente ritorno in primo piano dei dinosauri che lui negli anni precedenti era riuscito a metter da parte: occupavano pagine di giornali con invocazioni alla repressione e di sostegno a Li Peng e alla legge marziale. Si giunse infine alla strage, seguita dai giorni di angoscia e indecifrabilità politica, con gli annunciatori della tv tornati alla giubba alla Mao. Finché la sera di venerdì, 9 giugno, si ha in tv l'incontro di Deng con gli ufficiali delle truppe che hanno dato la mazzata. Li elogia per la difesa del sistema socialista, ma mette in chiaro che quel che è successo non deve significare fine delle riforme e ritorno alla chiusura. Riforme e apertura è la parola d'ordine. Il giorno dopo la Cina tutta è chiamata a studiare quel discorso, specie per quanto riguarda il futuro, non ciò che è avvenuto. L'impatto immediato di quell'apparizione in tv fu istintivamente rassicurante per il Paese e per gli osservatori. Deng avallava la strage, ma c'era ancora, non si sarebbe tornati a xenofobia e a fasti maoisti da rivoluzione culturale. Tuttavia, il richiamo alla continuità di riforme e apertura sembrò allora più rituale che convinto. E invece era proprio questo il punto centrale della battaglia politica che Deng stava concludendo nel chiuso della Città Proibita. L'evoluzione successiva le ha dimostrato. Fernando Mozzetti cidente uava a ngere drogato ologia cornucopia e apparsa come un ibrido di asiatismo e di bolscevismo Flessibile quasi ricalcato sui duplici comportamenti di Lenin ai tempi della Nep russa. Solo che la Nep leninista fu una scelta tattica limitata nel tempo, mentre la Nap denghista, dopo vent'anni di crescita ininterrotta, presenta i tratti di coerenza e di continuità di un'opzione strategica strutturale e definitiva. Onnai è impossibile negare che la terza età di Deng abbia coinciso in pieno con la prima giovinezza di una Cina rinnovata dalle fondamenta. Cosa accadrà ora, dopo la sua scomparsa, è difficile prevedere. Con ogni probabilità si preciserà, almeno per qualche tempo, la direzione collegiale già da un pezzo in atto con le sue false armonie e le rivalità sotterranee. La Cina avrà ai vertici del partito e dello Stato un ambiziosissimo pri- ^«^^«SOKSSSSi 1T1US mler P<H"eS, <'. - Jiang Zemin, che tenderà sempre più a diventare primus senza pares. I suoi concorrenti di prima linea, settantenni come lui, dietro i quali potrebbe allacciarsi un aspirante ancora ignoto, saranno il primo ministro conservatore Li Peng e l'intelligente presidente dell'Assemblea nazionale Qiao Shi. Ago della bilancia nella gara per la successione sarà una volta di più la gerarchia militare, da sempre garante del potere politico, inoltre comparcecipe con sue specifiche imprese commerciali al boom che oggi investe soprattutto le province dove l'esercito conta molto. E' auspicabile per tutti che la durata del denghismo prevalga anche senza Deng, sulle spinte centrifughe sempre in agguato nell'imprevedibile e turbolenta storia cinese. E' altresì auspicabile che l'apertura economica al mondo, inaugurata da Deng, rimanga lineare senza degenerare in un'aggressione nazionalista contro il mondo. Gli interrogativi e le speranze sono qui. Dipenderà molto dall'indole e dai progetti del successore, chepotrebbe essere e non essere Jiang Zemin, se la perseveranza nella stabilità interna avrà la meglio sulle tentazioni disgregatrici, e se l'evoluzione pacifica prevarrà nelle relazioni esterne con i Paesi asiatici e in particolare con gli Stati Uniti d'America. Enzo Bettiza K