Il Sessantotto degli intellettuali di Barbara Spinelli

Sugli immigrati clandestini l'ultima fiammata di collera dei francesi contro uno Stato lontano dalla gente Sugli immigrati clandestini l'ultima fiammata di collera dei francesi contro uno Stato lontano dalla gente Il Sessantotto degli intellettuali PARIGI AICEVA Karl Marx che le rivoluzioni in Francia si fanno sempre in costumi antichi, come su un palcoscenico. Così avvenne più di duecento anni fa, quando i giacobini si drappeggiarono negli abiti di Roma antica. Poi venne il 1848, e i rivoltosi mimarono la presa della Bastiglia. Infine arriviamo ai nostri giorni, che imitano in sordina il Maggio Sessantotto, e perfino le ire del 1789. C'è voglia di decapitare simbolicamente un'aristocrazia dirigente, come a quei tempi. Qualche giorno fa, di fronte alle telecamere, gli impiegati in sciopero del Crédit Foncier cantavano corrucciati: «I tecnocratici alla lanterna!». C'è uno Stato centrale che vacilla, che non sa come adattarsi alla mondializzazione dell'economia, e alle nuove responsabilità del singolo individuo non più protetto da centrali provvidenze. Intanto si accumula collera in questa nazione, sempre più densa da quando la Francia si bloccò per gli scioperi del servizio pubblico nel novembre-dicembre '95, e ogni inverno che passa diventa ormai lungo inverno dello scontento. Si accumula collera contro lo Stato che dà l'impressione non di correggersi ma di abdicare in favore di Maastricht, come affermavano gli scioperanti del '95 sostenuti da buona parte della popolazione. Si accumula collera contro lo Stato che per combattere l'immigrazione clandestina vorrebbe imporre ai cittadini di trasformarsi in poliziotti, e che chiede loro di segnalare sistematicamente la presenza di ospiti stranieri in casa, come lamentano in queste ore più di cinquemila intellettuali - registi di cinema e teatro, attori, scrittori, architetti, medici, librai, insorti contro una legge che lede alcuni principi, primordiali, dell'ospitalità. Si addensano tutte queste collere e sempre è contestato uno Stato che si irrigidisce, nel preciso momento in cui perde il suo potere e le sue competenze territoriali classiche. Che fruga con mani avide nella stessa vita privata dei cittadini, nel preciso momento in cui viene meno la sua forza, nonché la sua efficacia. Lo Stato francese è come stretto in una tenaglia, di questi tempi - è assediato economicamente dalle discipline europee di Maastricht, è assediato politicamente e psicologicamente dall'offensiva dei neofascisti di Le Pen -, e nel tentativo di divincolarsi si agita in maniera scomposta, invadente, instupidita. Lo Stato francese che vorrebbe entrare nella Moneta Unica è oggi radicalmente malato. E' impotente, e simultaneamente ha manie d'onnipotenza. E' assente, e simultaneamente troppo presente. E' un ancien regime, e i suoi deboli re son screditati. Da oltre un anno, poi, ha contro di sé una società che tende a far secessione: che fugge a ritroso sotto la guida di Le Pen, o che si esercita invece in un suo pervicace, intermittente, irato Sessantotto. Un Sessantotto non più marxista ma liberale, individualista. Dice il filosofo André Glucksmann che «è vero quel che dice Marx: le rivoluzioni francesi si fanno sempre nei costumi delle epoche precedenti, e hanno qualcosa di teatrale. Ma non per questo la ripetizione del Sessantotto è oggi una caricatura, una farsa: oggi come in passato si usano maschere antiche, sì, ma per meglio porre questioni moderne». E' questione moderna fronteggiare il neofascismo di Le Pen, nella Francia di oggi. E' questione di estrema urgenza evitare che lo Stato e i partiti di maggioranza si lascino stregare dal ricatto elettorale del Fronte Nazionale, e si mettano a imitare, intimoriti, i programmi xenofobi d'estrema destra: è stato calcolato che il Fronte sarà arbitro in 200 circoscrizioni elettorali in Francia dove potrà mantenersi al secondo turno con almeno il 12,5 per cento dei suffragi - e le forze po- nomista Alain Lipietz sostiene che questo è il motivo per cui la Francia tende oggi a inseguire ciecamente il modello economico anglosassone, piuttosto che i modelli di adattamento che si fanno strada nell'Italia del Nord-Est o nella Germania del Baden-Wùrttemberg: «E'più facile ignorare tutte queste rivolte che si estendono, è più facile mettere a tacere o trascurare i già fragili sindacati, e imporre dall'alto lavori precari, ridurre drasticamente le garanzie sociali, piuttosto che tentare un nuovo patto fondato sulla redistribuzione degli orari, sulla spartizione del lavoro esistente, sulle diverse responsabilità che il cittadino può esercitare localmente, non più sul piano nazionale». Come molti francesi, Lipietz ammira quel che si fa in Italia, in particolare nei distretti industriali del Nord-Est. A suo parere, è qui forse il modello alternativo a quello anglosassone, che è fondato su alte produttività e su smunte coesioni sociali. E' qui, oppure in Germania meridionale, oppure nel tentativo olandese di salvaguardare lo Stato sociale e i lavori altamente qualificati, mediante forte moderazione sindacale. E' in questo modo di arrangiarsi - che i francesi non conoscono - e di trasformare le debolezze in forze: società siffatte mostrano la capacità non solo di fare a meno dello Stato centrale, ma di profittare di questa invalidità - peraltro strutturale in Italia. E' un punto sul quale insiste Sergio Arzeni, dirigente dell'Ocse che si occupa della piccola imprenditoria e dello sviluppo locale e che conosce bene i distretti industriali italiani. «In queste zone sono assenti le grandi forze coercitive delle nazioni: lo Stato, il fisco, i monopoli». In queste zone i pesanti apparati centrali sono astutamente aggirati, secondo tattiche dissidenti deh'autolimitazione locale che somigliano molto alla disobbedienza civile di Solzenicyn. A differenza di quel che accade in Inghilterra, nei distretti sono offerte alte qualificazioni, alte remunerazioni salariali, e la coesione sociale è un elemento assolutamente centrale del dispositivo, così come centrale è il rapporto di fiducia triangolare tra lavoratore, datore di lavoro, cliente. «Il sindacalismo stesso qui tende a trasformarsi - spiega Arzeni - non è più sindacalismo nazionale o d'impresa ma è spinto a divenire sindacalismo di un determinato territorio, che si cura dello sviluppo complessivo d'una regione o d'un gruppo ristretto di cittadine». Per il momento, è l'unico modello alternativo a quello statunitense, che mostra di funzionare in Europa senza sradicare le tradizioni del continente. E' un modello competitivo, che non comporta fatalmente lacerazioni sociali. E' un modello che obbliga a ripensare il posto del sovrano, delia politica oggi debilitata, e del rapporto che la singola nazione ha con la propria storia. Dice ancora Arzeni che, paradossalmente, «il modello europeo che funziona è oggi il prodotto d'una assenza di politica, almeno a livello di governo nazionale». Esso conduce a investire in antiche tradizioni locali di autogoverno, nell'organizzazione delle famiglie, nell'esperienza associativa di mestieri qualificati che riacquistano il peso che avevano le gilde, nel Medio Evo. Per la Francia ingessata attorno ai suoi sconforti sarebbe forse una medicina. Sarebbe un'altra respirazione. Sarebbe come un grande latifondo agricolo che si spezzetta infine in piccole famiglie e cittadine, e smette la dipendenza esclusiva dal Signore centrale. Faciliterebbe un nuovo contratto con il sovrano infermo che non sa più comandare sulle immense sue province, e non sapendo si trova alle prese con dissidenti, con sudditi iracondi, e con disobbedienti civili. Barbara Spinelli (2 - Fine)