La Vandea dei senza lavoro
la Vandea dei senza lavoro la Vandea dei senza lavoro Parigi teme il futuro, Le Pen ne approfitta L'economista Lipietz: «La rivolta neofascista contro le élite parigine nasce in quel Midi che per un secolo è stato tradizionalmente rosso» -j secolo è stato rosso», mi fa notare l'economista Alain Lipietz, «e che ha combattuto tutte le grandi battaglie laiche e repubblicane della Francia. Le sole città che insorsero per la Comune di Parigi, nel secolo scorso, sono quelle del Sud, e le tradizioni rivoluzionarie hanno qui radici potenti. Sono questi ex rivoluzionari che oggi scelgono Le Pen, sono i francesi del 1789 che votano oggi contro l'Europa, mentre i più favorevoli alla Moneta Unica si trovano in regioni tradizionalmente antirivoluzionarie, nonché cristiane, come Bretagna o Vandea». Nel Sud divenuto bruno o nelle periferie della capitale, Le Pen sradica antiche consuetudini socialiste, comuniste, e conquista prioritariamente l'elettore disoccupato, poi l'operaio, infine il piccolo commerciante. Il suo punto di forza non è solo nel messaggio razzista, xenofobo. E' anche e sempre più nel messaggio socialnazionale, popolare, antitecnocratico. Messaggio che entra in concorrenza Per Bill Gates «l'intera Francia è come un grande Titanic che non sopporta lo svanire del lavoro tradizionale, del progresso per tutti» con quello comunista e che spiega la parallela rimonta di quest'ultimo. Secondo Emmanuel Todd, che abbiamo mterrogato nell'Istituto francese per gli studi demografici, questo è anche un possibile limite del Fronte Nazionale. «In prospettiva vedo piuttosto un'ascesa dei comunisti, capaci almeno di influenzare i socialisti, mentre il Fronte Nazionale dovrà scegliere fra le due cose: o l'odio razzista dello straniero, o l'odio per le scelte eco¬ nomiche della tecnocrazia dominante. La combinazione fra i due odi funzionava perfettamente per il nazista, che identificava l'ebreo assimilato con l'establishment capitalista. Non funziona nel caso del maghrebino o dell'africano che sono oggi criminalizzati, ed emarginati». Ha detto qualche giorno fa Bill Gates, il fondatore di Microsoft, che un imprenditore ha tendenza a sprofondare, nella Francia diventata malata. Che «tutto il Paese è come un grande Titanic»: un Titanic dove l'economia è come ingessata, e lo Stato e ancora onnipresente nonostante le liberalizzazioni tentate prima con timidezza da Mitterrand, poi con più ardimento da Chirac e Juppé. Un Titanic che sopporta meno di altri la disoccupazione, l'esclusione di intere classi di cittadini, lo svanire del lavoro tradizionale, la crisi dell'idea di progresso per tutti. «Si va verso la fine», scrive Viviane Forrester, per concludere: «La nave ha già fatto naufragio». Mi dice Bernard Perret, studioso della fine del lavoro, che precisamente questo è il malessere di cui i francesi soffrono più di ogni altra nazione in Europa occidentale: questa fine del lavoro classico e questa disoccupazione irriformabile, che è alla base del loro senso di declino nazionale. «Altre nazioni possono convivere più facilmente con un lavoro che va trasformandosi, che si fa ovunque più precario e più mobile, che smette di funzionare sull'unità di tempo di luogo e di azione, come nelle tragedie antiche», spiega Perret, «mentre per la Francia è un autentico trauma nazionale, psicologico. La sua identità infatti è storicamente fondata sul lavoro: sul lavoro che emancipa l'individuo dalle comunità fraterne o familiari, dalle appartenenze di etnia o di religione, e che dà sostanza a quell'altro elemento di integrazione sociale che è la laicità. Il lavoro prolunga la rivoluzione del cittadino libero, conferisce a quest'ultimo una dimensione
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