OPHULS: COL CINEMA MI SON GIOCATO LA VITA

OPHULS: COL CINEMA MI SON GIOCATO LA VITA OPHULS: COL CINEMA MI SON GIOCATO LA VITA /ricordi del regista di «Paura all'alba» I film di Max Ophùls continuano a passare clandestini di notte su Raitre, a «Fuori orario»; Enrico Ghezzi lo definisce «un poeta e uno scienziato... un fine intellettuale e un geniale inventore di forme che scompaginano la granitica quadratezza dello schermo (di tutti gli schermi, ideologici e artistici), ha pagato con mia vita di cineasta wellesianamente inappagata e inconclusa». Commento speculare al titolo Gioco la vita che Ophùls ha apposto alle sue memorie (incompiute) ora in uscita da Bompiani (pp. 220, L. 28.000), a cura di Enrico Grappali, con prefazione di Marcel Ophùls, il figlio, affermato documentarista. Scritte tra il '45 e il '46, uscirono nel '59 (due anni dopo la morte): il regista di Amanti folli e Paura all'alba, La ronde e Lola Montès, racconta il suo esordio nel teatro e la sua scoperta del cinema, descrive con piacevole leggerezza e vivaci aneddoti il fascino dela sua arte. Ne anticipiamo due brani: il primo film della sua vita, l'incontro col produttore Angelo Rizzoli nell'Italia Anni 30. GIOCO LA VITA Max Ophùls A cura di Enrico Groppali Prefazione di Marcel Ophùls Bompiani pp. 220 L 28.000 L cinema mi attraeva e, al tempo stesso, mi spaventava. A detta di chi ci lavorava, era un impegno duro. Bisognava imparare un sacco di cose, un'infinità di dettagli tecnici, per non parlare del montaggio, del copione di lavoro, dei tagli, eccetera. Era un mestiere che non aveva nulla a che fare con la prassi quotidiana del teatro. Metteva paura solo a pensarci: avrei dovuto far tabula rasa e cominciare dall'Abc. Ma la ragazza in questione era stavolta una bionda incantevole che accelerava i battiti del cuore. Si chiamava Ina, faceva la comparsa all'Ufa e io l'aspettavo - Dio mio, quanto tempo ci impiegava! - alla mensa degli studi cinematografici. In quel luogo, nell'intervallo tra una ripresa e l'altra in piena notte, il dado fu tratto. Accanto a me un signore lievemente ebbro discuteva animatamente con un altro signore che dava segno, anche lui, di non essere perfettamente in sé. GIOCO LA VITA Max Ophùls A cura di Enrico Groppali Prefazione di Marcel Ophùls Bompiani pp. 220 L 28.000 «Mi chiedo proprio come trarmi d'impiccio. E' ovvio che, al suo fianco, deve esserci qualcuno. E' russo, capisci, e non sa una parola di tedesco. Quindi ci dev'essere uno del mestiere che traduca le sue direttive, sennò gli attori non capiscono. Ma non può essere un tizio qualsiasi, perché se non è un regista pure lui, gli attori non lo staranno nemmeno a sentire. E dove lo trovo un regista che accetta di fare soltanto l'interprete?». «A 4 anni il primo film della mia vita; nel '34 rincontro con Rizzoli» Ero sulle spine ma quando Lia, che adesso era accanto a me, mi fece capire che, se accettavo, ci saremmo visti a colazione tutti i giorni, presi il coraggio a due mani e mi presentai. Ventiquattr'ore dopo, ero scritturato come assistente alla regia di Anatole Litvak che si apprestava a girare Nie wieder Liebe («Mai più l'amore», 1931). Il mio primo giorno di lavoro nel cinema, mentre mi dirigevo a tutta velocità allo studio sulla mia piccola Dkw rossa (che Peter Lorre avrebbe ribattezzato «il ronzino al galoppo»), cercavo di ricordarmi il primo film che avessi visto. Lo ritrovai sepolto in fondo ai ricordi d'infanzia. 1906! Avevo quattro anni. La nonna mi aveva accompagnato alla fiera di Worms. Davanti a una tenda, una donna grassissima urlava a perdifiato pur di attrarre la sua recalcitrante clientela. Dentro, su un lenzuolo che faceva le veci dello schermo, assistemmo a una scena emozionante. Un uomo panciuto con gli occhi da pazzo era in preda a un'incredibile agitazione. Gesticolava, batteva i piedi per terra, si dimenava davanti a un tavolo su cui troneggiava un gigantesco calamaio. Afferrò subito il recipiente con entrambe le mani e cominciò a bere. Mentre l'inchiostro gli scendeva in gola, diventava blu, com- pletamente blu a partire dai piedi. Quando il blu cominciò a colorargli il viso, si strozzò e il film finì. La storia durava più o meno quel che ho impiegato a raccontarvela. Neanche due minuti: quanto bastava a farmi tremare, ridere e piangere. Ossia, per citare i Principi dell'Arte Drammatica nella definizione di Schiller, quel breve film era la summa di tutte le emozioni che uno spettacolo può suscitare nella mente di uno spettatore. Finalmente, il «ronzino al galoppo» varcò la soglia degli stabilimenti Ufa. Ammirando quelle installazioni imponenti, indubbiamente le più importanti di quel genere che esistessero allora in Europa, sorrisi tra me e me al pensiero che tutto quanto si riprometteva di ottenere lo stesso fine che l'orribile bevitore d'inchiostro aveva realizzato in due minuti scarsi venticinque anni prima. Un ingegnere, membro della direzione, dedicò tutta la giornata a farmi visitare gli studi. Le sue spiegazioni, saranno state senz'altro esaurienti, mi lasciarono tuttavia in uno stato d'animo dove il caos regnava sovrano: non avrei imparato mai, pensai, tutti quei dettagli tecnici. Di quel primo giorno, la mia memoria ha conservato una sola immagine. Avevamo cominciato la visita assai presto, alle sette e mezzo del mattino. In una specie di gigantesca serra, a un certo punto vidi mia bellissima donna splendidamente vestita scendere una scala altissima. Giunta in fondo alla scala, disse rivolgendosi a un personaggio invisibile: «La rivedrò giovedì sera, mio caro». Quando, verso le sei di sera, ripassammo davanti alla serra, la stessa magnifica creatura scendeva sempre quell'altissima scala per rivolgere le stesse parole allo stesso invisibile personaggio: «La rivedrò giovedì sera, mio caro». Adesso sì che sapevo, o credevo di sapere, come si girava un film. [...] Il lavoro a Roma era piacevole e divertente. Devo dire per merito degli italiani. Il principale finanziere del mio film (La signora di tutti, 1934) era un magnate della stampa che aveva un nome e un indirizzo di tutto rispetto: era infatti il commendator Angelo Rizzoli, con gli uffici in Piazza Erba a Milano. [...] Quando, prima dell'inizio delle riprese, gli feci leggere il copione, ne rimase letteralmente entusiasta. Anzi, entusiasmo è una parola che in questo caso non era pertinente. Quella lettura scatenò in lui addirittura l'amore, la passione amorosa più cocente, un vero e proprio colpo di fulmine. Quando finii di leggere, si alzò di scatto in piedi, applaudì e proruppe in un «Bravissimo! Facciamo una festa!». Invitò subito alcuni amici e scolammo una bottiglia dopo l'altra fino all'indomani. Ogni volta che veniva a Roma a vedere la proiezione delle sequenze filmate, saltava su come una molla, applaudiva e urlava: «Bravissimo! Facciamo una festa!». Erano feste in cui non badava a spese e, di norma, il giorno dopo, non eravamo in grado di lavorare. [...] L'anno successivo, arrivò a Parigi. Quando, la sera della prima al Cinema des Mathurins, vide le Guardie Repubblicane schierate in doppia fila con tanto di uniformi gallonate e di elmetti lucenti e camminò sulla bella passatoia rossa per salutare ministri e ambasciatori, di nuovo non riuscì a trattenersi. Mi pare ancora di vederlo, spazientito tra tutta quella folla mentre applaudiva e urlava come un ragazzino: «Grande! Bravissimo! Facciamo una festa!». Max Ophùls

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