Anche Burlando finisce nella rete consociativa di Roberto Ippolito

NOMI E COGNOMI NOMI E COGNOMI Anche Burlando finisce nella rete consociativa Roberto Ippolito ELL'EPILOGO dell'aspra vertenza sulle Ferrovie - culminata ieri in una conferenza stampa del ministro dei Trasporti trasformata in un creativo happening da Anni 70 dal trionfale arrivo dei sindacati di categoria - ci sono riprodotte, simbolicamente e persino plasticamente, le difficoltà e le ambiguità della sinistra di governo. Quella di Claudio Burlando, giovane ministro pidiessino e uomo di punta del nuovo riformismo dalemiano, era stata a suo modo una sorta di moderna «svolta dell'Eur» applicata alle Ferrovie: basta con la peronistica «cogestione» all'italiana, basta con il consociativismo aziendale che confonde i ruoli ed annacqua le responsabilità, basta con la pseudo-pace sociale conquistata al prezzo di concessioni contrattuali a piò di lista o di poltrone in consiglio di amministrazione ai sindacalisti di turno. Basta con tutto ciò che, insomma, ha già sfasciato l'Alitalia nella parabola dei Nordio e dei Bisignani, e ha cominciato a disgregare le Fs in quella dei Ligato e poi dei Necci. La linea dura di Prodi, fatta propria da Burlando attraverso una non facile rivisitazione critica della cultura «comunista» nelle relazioni industriali, aveva suscitato inevitabili polemiche nel pds, nelle file dei Cobas e in quelle dei confederali, che avevano persino, e inutilmente, assediato in senso fisico gli uffici del ministro. Ma quella scelta era stata anche vissuta con un compiaciuto senso di liberazione psico-politica. Dall'utenza esasperata in decenni di disservizi pubblici come ricaduta di una paralizzante e ricattatoria micro-conflittualità quotidiana, ma anche dalla stessa sinistra «illuminata», e più ansiosa del cambiamento. Per questa sinistra, la fermezza sulla direttiva del governo per le Ferrovie rappresentava un momento traumatico quanto si vuole, ma comunque necessario. Nella stessa misura in cui lo fu, ovviamente su piani politici diversi, lo scontro epocale tra la Thatcher e i minatori inglesi. Ma adesso, puntuale e dunque nemmeno troppo imprevedibile, il vecchio ma mai spento semaforo rosso del consociativismo si riaccende, e blocca sui binari il convoglio del cambiamento di cui lo stesso Burlando aveva coraggiosamente assunto la guida. Cos'altro è l'ennesimo I compromesso sulla direttiva I Prodi, che per scongiurare il DIPENDENTI PERDITE CONFRONTO CON 1995 incremento perdite 1 23.000 2700 miliardi 1 200 miliardi 750 miliardi 250 miliardi o|rre2Ò.OOO miliardi 7200 miliardi rischio dei soliti scioperi rinvia il progetto di separazione societaria tra l'infrastnittura e il servizio di trasporto, se non un cedimento alla logica secolare dell'«Et at patron» all'italiana in cui la «sine cura» sindacale e la monopolistica inefficienza aziendale si «tengono» e si scaricano sui portafogli dei contribuenti? Cos'altro è la clamorosa retromarcia del governo su questo punto qualificante della direttiva, che apre per la prima volta uno spiraglio al mercato anche nel malgestito settore dei trasporti pubblici, se non un'implicita vittoria della solita filosofia dello Stato-Pantalone, che ogni anno sovvenziona e ripiana i debiti delle Fs per qualcosa come 20 mila miliardi? Ci si aspettava di più, diciamolo francamente, dal riformista Burlando. Che pure, già qualche giorno fa. aveva palesato qualche imbarazzo, quando nel pieno della recrudescenza dello scontro con i Cobas e con i confederali, s'era lasciato sfuggire un emblematico «io la direttiva non l'ho né subita, ne ispirata...». Quasi una pilatesca presa di distanza, il prodromico segnale di una prima, non trascurabile crepa sul fronte della fermezza. Qra quel fronte ha ceduto, lasciando di nuovo il binario libero al sindacato e a ciucila che un tempo, eufemisticamente, si definiva la «Sinistra ferroviaria». E' un peccato, ma lo ripetiamo, non c'è da stupirsene poi molto: dalle pensioni alle privatizzazioni, dalle liberalizzazioni alle relazioni industriali, Quercia e Ulivo tentano un difficile, talvolta impossibile innesto di culture. Che secerne forti pulsioni di modernità, ma altrettanto forti resistenze ideologiche e corporative. E' quasi un paradossale destino, per quest'Italia di oggi. Alla quale non si può che appUcare la felice intuizione di John Kenneth Galbraith: «Non ho mai conosciuto una società nazionale che migliori con tanto successo, tra un disastro e l'altro».

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