CARNEVALE la follia al potere di Bruno Ventavoli
Fra spettacoli, travestimenti, incontri e foghe, lungo le calli di Venezia riesplode una festa antica Fra spettacoli, travestimenti, incontri e foghe, lungo le calli di Venezia riesplode una festa antica CARNEVALE l fll Nla follia alpotere AVENEZIA Venezia stanotte non si è dormito. L'invasione per il gran sabato del Carne Ivale non è stata così massiccia come in qualche anno di punta, ma certo si è tenuta su medie molto sostenute. Calli intasate da scoppiare, ponti da far paura, battelli colmi delle più strane apparizioni: fiumi di maschere, per tutto il pomeriggio e la notte. Ricchissime e povere, italiane e no, antiche e moderne, giovani e vecchie, né giovani né vecchie, solo maschere, centomila maschere da fuori città, nel palcoscenico incantato. Nei grandi caffè, al Florian, al Quadri, nei palazzi esclusivi, infuriano travestimenti favolosi, da qualche milione al metro quadro. Ma lo scenario che conta, la città sull'acqua, è ancora una volta per l'intreccio tra il povero e il ricco, per i travestimenti pazzi ma come ritmati fra loro, per le mescolanze impensate - così come è fatta Venezia. Il Carnevale resta soprattutto l'incontro tra le maschere più sontuose e le più «povere», che spesso sono anche le più vive e originali, con naturale predominio della vita. La città è per loro; e loro ripetono il miracolo. Qui non ci sono carri allegorici, strutture prefabbricate, «macchine» o simili; solo qualche spettacolo nei teatri, riunioni in casa, una sfilata in barca. Tra le «macchine», da mille anni si ripete solo il volo della colombina, che è un soffio, un tuffo dal campanile di San Marco: comincia e termina in un lampo, fra cielo e terra. Il Carnevale continuano a farlo loro anche oggi, le ma¬ schere senza nome; lo inventiamo noi, se siamo ancora capaci. Dipende dal nostro estro e dai luoghi che scegliamo, dai compagni che il destino ci fa trovare, dalla nostra voglia di incontro e dalle luci nei canali, dall'ora del giorno o della notte, dal nostro essere o non essere un po' tutti «artisti di strada». Per questo hanno tanta importanza i fotografi, e un tempo i pittori: quella specie di continuo minuetto tra la «camera in agguato» e i costumi in giro, tra i sorrisi e le architetture, i suoni e le luci. Tra gli impenetrabili misteri di ognuno, le fughe, le intuizioni, le scomparse, i ritorni. La televisione ha la sua parte sempre più grande ma anche sempre più difficile: nella grande folla finisce col restituire più facilmente il banale, lo scontato, il già visto. Anche qui tra le isole il Car- LA CARICA DEI 60 MILA VENEZIA. Nonostante la fitta nebbia e lo sciopero delle ferrovie (ma grazie a un accordo con i sindacati sono stati comunque garantiti una sessantina di treni regionali per la Serenissima), 60 mila visitatori si sono riversati ieri pomeriggio lungo le calli e i canali. Fin dal mattino si sono esauriti tutti i posti dei garage di piazzale Roma e del Tronchetto e il ponte della Libertà è stato chiuso per alcune ore all'accesso dei non residenti. Intanto il Carnevale lagunare sta già preparando le valigie per la Grecia, dove parteciperà tra un mese alle manifestazioni di «Salonicco capitale europea di cultura 1997». nevale nasce dunque dalla voglia di travestimento, ma sviluppa una particolare radice, un antico «qui non c'è niente, e allora lo facciamo noi». Non c'era niente un tempo, neanche la terra dove mettere i piedi; e qui è stata fatta Venezia. Ci resta il più bel palcoscenico del mondo, la festa la combiniamo di sicuro, ognuno a suo modo. E' sempre stato così, non può essere che così in uno scenario come questo. Festa antica come l'anno scorso, come il secolo scorso... Sempre nuova come l'umanità. Personale e comuni taria, di tutti e d'ognuno. Soprattutto personale: il mio capufficio in questi giorni si prende le ferie, si mette un cappellaccio in testa, un mantello addosso. Esce, e si rivela per quello che è: un raffinato jongleur. Corre nei posti che lui sa, sul bel ponte di marmo, di fronte al portone gotico: estrae non so quante palle da tennis, una rossa, una gialla ecc., e comincia a giocare. Giocoliere perfetto, si è esercitato tutto l'anno, è lui il Carnevale. Quest'anno c'è una novità: un travestimento da niente, un semplice cappello da jolly, da cappellaio matto, coi campanellini. Costa poco, 20-30 mila lire, si può comprarne un paio, un controcappellaccio di riserva, da notte delle streghe... e si ottengono effetti incredibili. I ragazzi si baciano sotto i portici tra ondate di campanellini in festa, il vecchiotto passa risuona e saluta, una allegria commossa sgorga dal ponte sgangherato, confonde i luoghi e le età. Paolo Barbaro Con mantello e cappellaccio il capufficio si trasforma in perfetto giocoliere Una maschera a Venezia (foto F. Roiter). In basso la festa dei bambini Forme animalesche e spaventose per esorcizzare V aldilà bisognosi di stare in gruppo e di obbedire a un capo; non troppo diversi, alla fin fine, dai loro coetanei d'oggi. Non c'era allora città o villaggio in cui i giovani, all'avvicinarsi delle festività invernali, non formassero una loro banda, o società, o badìa, eleggendosi un capo, che chiamavano re o abate; e sono quegli stessi «re» o «abbà» che così spesso, ancor oggi, capeggiano i festeggiamenti carnevaleschi, là dove il folclore tradizionale non si è del tutto estinto. Le autorità li tenevano d'occhio, ma raramente arrivavano a proibire del tutto le loro combriccole, perché era pur sempre utile che quei giova¬ ni, facili a menare le mani o il coltello, fossero in qualche modo inquadrati e controllati. Quando poi c'era bisogno di organizzare pubbliche festività, di mettere in scena una sacra rappresentazione, o di armare in fretta una milizia per difendersi dai lanzichenecchi, era proprio a loro che ci si rivolgeva; sicché avevano quasi sempre il permesso di organizzarsi in forma paramilitare e di esercitarsi con la balestra o l'archibugio. Com'è ovvio, l'indulgenza delle autorità aveva i suoi limiti; non si apprezzava che quei giovanotti, sotto l'impunità della maschera, disturbassero in casa loro i pacifici borghesi, ne che aggredissero in branco qualche disgraziata ragazza sopresa in una strada deserta. Se almeno si fosse potuto impedirgli di travestirsi; ma per l'appunto, gli «abbà» e i loro seguaci ritenevano che in tempo di festa mascherarsi fosse un loro preciso diritto, e non c'era grida che riuscisse a scoraggiarli. Antropologi e storici sono d'accordo nel riconoscere che queste mascherate collettive erano in origine un'evocazione dei morti; i giovani, travestendosi in forme spaventose o animalesche, permettevano ai morti di ritornare, in certi momenti speciali, sulla Terra, e così impedivano loro di recensioni «sentimentali»: da Totò a Orson Welles re» e che sullo schermo «Caino persuade, Abele annoia». Poi, Flaiano, il cinema cominciò a farlo davvero (la prima sceneggiatura è del '42). A masticarlo, a scriverlo, a sceneggiarlo. Magari velocemente, su un tamburo, un'ora prima che Totò recitasse la scena. Magari, accanto a maestri come Fellini, Antonioni, Pietrangeli. Decise così di diradare l'attività critica («ho smesso perché mi sembrava strano scrivere per il cinema e giudicare nello stesso tempo i film degli altri»). Ma questa sequenza di recensioni - come nota Cristina Bragaglia - è qualcosa di più e di diverso da semplici giudizi estetici. Divagano, inquadrano dettagli, sferzano e fustigano un mondo. E soprattutto, sono una palestra per imparare, affinare, migliorare il mestiere di sceneggiatore. Nell'ultimo articolo che troviamo in volume, Flaiano scrive che un «film finito non è necessariamente un film vivo». Perché un film viva, non basta 1'«attrazione esche er ldilà ritornare davvero, di propria iniziativa e in modo ben più distruttivo. Non per nulla nei documenti medievali le maschere sono chiamate comunemente «larvae», cioè fantasmi, c i'usanza di mascherarsi era praticata, oltreché a Carnevale, anche nella settimana d'Ognissanti: cioè appunto l'epoca in cui, secondo le antiche credenze, i morti tornano ad aggirarsi sulla Terra. Ma non dobbiamo credere che quei giovani, quando uscivano in maschera a far bravate, mantenessero una qualche consapevolezza di questo significato ancestrale; molto probabilmente non sapevano affatto d'impersonare i morti, così come non lo immaginano i bambini d'oggi. Sopravvivenza d'un passato che non si capiva più, le mascherate di Carnevale e d'Ognissanti erano invece una straordinaria occasione per dar libero sfogo alla trasgressione, e anche per celebrare impunemente sanguinosi regolamenti di conti. Non sono pochi i casi in cui sotto la copertura delle maschere carnevalesche partiti e fazioni avverse si sgozzavano in piazza, trasformando il Martedì Grasso in un'orgia di sangue; Emmanuel Le Roy Ladurie ha studiato proprio un caso di questo genere in uno dei suoi libri più famosi, Il Carnevale di Romans. Siamo ben lontani, come si vede, dall'atmosfera festosa e infantile clie oggi associamo spontaneamente al Carnevale. Qualcuno avrà osservato che i rituali fin qui evocati richiamano semmai un'altra festa che noi italiani siamo abituati, a torto, a considerare estranea alla nostra cultura, quella di Halloween. Ed è proprio così: il progressivo fossilizzarsi di questi rituali, ormai degradati a divertimenti infantili, ha fatto sì che in America l'uso del travestimento si sia conservato soprattutto a Ognissanti, e da noi, invece, a Carnevale, ma l'lina e l'altra usanza nascono da una matrice comune, che paradossalmente si riconosce molto meglio nella versione americana. Quando Linus e Charlie Brown accendono la candela nella zucca, spaventosamente intagliata così da rassomigliare a un teschio, e si travestono da zombie o fantasmi per passare di casa in casa a estorcere regali, i loro gesti sono infinitamente più arcaici di quanto non sia ormai il nostro Carnevale, con i suoi mille piccoli Zorro. L'America, il Paese del futuro e della tecnologia, conserva nella notte di Halloween un avanzo di quello che era davvero il Carnevale nell'Europa dei nostri antenati. Alessandro Barbero naif» dei festival. Deve arrivare nelle sale comuni. Essere «distribuito», visto, discusso. Solo mio che amava davvero il cinema, che l'aveva fatto, che conosceva da vicino produttori, il potere di veto di noleggiatori ed esercenti, poteva cogliere il cuore della celluloide. Non d? critico freddo. Ma da spettatore sentimentale. Conscio del significato della missione d'andare in una sala buia. «Amo i film divertenti e, al contrario di Umberto Barbaro che va al cinema soltanto per istruirsi, io preferisco andarci per dimenticare quel poco che so». Bruno Ventavoli
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