«Bisogna rompere lo spirale perversa» di Gad Lerner

«Bisogna rompere lo spirale perverso» «Bisogna rompere lo spirale perverso» Dini: basta con i veleni, confronto nelle sedi istituzionali gazioni ma ricordare anche agli altri quali sono i loro doveri. I giorni che seguiranno, gli incontri bilaterali, a cominciare da quelli di oggi a Bonn, saranno dunque cruciali per ricollocare il tema dell'Europa in un contesto di maggiore equilibrio e di maggiore serenità. Cercheremo di evitare che il disegno europeo sia ricondotto ad un esame permanente degli uni e sugli altri, che alcuni si arroghino il privilegio di decidere tempi e modi del processo, inclusioni ed esclusioni al di fuori delle istituzioni e delle loro regole e procedure. Il confronto, non solo inevitabile ma pioficuo, sulle regole della convergenza acquisterà chiarezza se mantenuto nelle sedi appropriate. Non ci si può sostituire al loro giudizio né anticiparlo, né configurare la moneta alternativamente come punizione o redenzione. Dobbiamo arricchire e non restringere il dibattito, evitare di porre tutto il peso sulla moneta, non agitare il 1999 come un nuovo anno Mille dell'Europa. Arricchire il confronto significa insistere con i nostri partners sul valore irrinunciabile di un riequilibrio, all'interno e all'estero, della costruzione europea. Li metteremo alla prova, non soltanto sulle regole della finanza virtuosa ma anche sui diritti del cittadino, sulla dimensione sociale e dell'occupazione, sulla creazione di uno spazio «federale» nella giustizia e negli affari interni, sulla elaborazione di nuovi strumenti per concorrere alla pace e alla stabilità sul nostro continente. L'Europa fronteggia sfide esterne epocali e sembra invece indulgere alle proprie debolezze e a sospetti reciproci proprio mentre è proiettata, in questo scorcio di secolo, in una competizione quasi del tutto improvvisa, dalla quale fino a in noi? Il grande borghese Albert Speer, divenuto amico del piccolo borghese Adolf Hitler, racconta nello splendido libro che gli ha dedicato Gitta Sereny di non essere mai stato antisemita, ma di avere provato esattamente quella sensazione di fastidio per ciò che di antiestetico ravvisava negli ebrei. Non per nulla accanto alla difficoltà di ricordare del carnefice, accanto all'ottuso senso di colpa degli indifferenti, rientra nella norma pure l'illusoria voglia di dimenticare delia vittima. La scrittura asciutta e disadorna del chimico torinese Primo Levi, espressione di uno sforzo individuale a misurarsi con tutto ciò, per questa via si è fatta anche opera d'arte. Un'opera che oggi non a caso, e felicemente, va incontro alla propria riproduzione. Avverto una specie di rammarico, nell'attesa di vedere il film di Francesco Rosi. Quasi dispiace che nell'immaginario dei più il volto severo di Primo Levi, quei suoi occhi luccicanti intelligenza e rigore, siano destinati fin dai mesi prossimi a trasfigurarsi nelle sembianze di un pur bravissimo attore come John Turturro. Forse non vorremmo perdere il ricordo dell'originale, com'è avvenuto con Gandhi divenuto Ben LA FATICA DELLA RAGIONE prima mondiale a Torino lunedì prossimo: un giovane uomo che ritorna avventurosamente a casa dopo essere scampato solo grazie a un capriccio della sorte all'inferno omicida di Auschwitz. Molti di coloro che avevano condiviso la stessa esperienza, avevano pensato addirittura di doversene vergognare, comunque avevano cercato di rimuoverla come premessa per ricominciare a vivere. Levi invece ha deciso di affrontare per sé e per noi la fatica della memoria: ritornando dentro il ricordo personale diretto di immagini come quella delle donne nude avviate alla morte, pubblicata sul giornale di mercoledì. Da ragazzo avevo scelto proprio di non guardarle mai quelle foto, non solo per la difficoltà quasi insopportabile del confrontarsi con la sofferenza, ma anche per un inconfessato senso di vergogna attraverso cui mi sentivo accomunato alla miseria delle vittime: se ci denudavano e deridevano prima di massacrarci, non era forse anche per un'insita sgradevolezza che riconoscevano ieri era stata esclusa, o rimasta ai margini, gran parte del mondo. Questo significa invocare il primato della politica: rivendicare noi stessi per primi la cultura della stabilità. Stabilità non solo monetaria, nemmeno soltanto economica, bensì squisitamente politica, contenente certo le prime due dimensioni ma non fino ad esaurirsi in esse. Altrimenti l'Europa cadrebbe vittima di un duplice estremismo: da un lato di coloro che, con vizio tecnocratico, vorrebbero restringere l'orizzonte alla moneta, dall'altro di quanti, con spirito populista, vorrebbero opporsi alla logica del rigore e della responsabilità. La Conferenza intergovernativa ci impegna in un ampio ventaglio di co-operazioni, posizioni comuni, proposte nazionali su tutti i punti nodali Kingsley nel nostro immaginario grazie alla potenza del buon cinema. Ma è solo una preoccupazione ingenua, la paura che si perda l'unicità della testimonianza, la sua eccezionalità. E' vero semmai l'opposto: raddoppia oggi la fatica del ricordare di fronte all'usualità della morte, anestetizzata nei mass media fin dalla più tenera infanzia. Sicché ancor più pressante diviene l'esigenza di proporre criticamente la memoria storica, come operazione culturale di razionalità laica. Questo è stato il torinesissimo Primo Levi: un eccezionale interprete della razionalità laica, impegnato a cimentarsi con l'ancora non del tutto spiegata razionalità omicida del XX secolo. Tanto è vero che a tutt'oggi, dieci anni dopo, non sappiamo dire davvero se Primo Levi abbia vinto o perso quella battaglia della ragione che ha toccato forse il suo culmine ne «I sommersi e i salvati», vera e propria sintesi ultima della riflessione di un sopravvissuto. Certo l'ha vinta, quella battaglia, consegnandoci dei libri preziosi che resteranno a lungo dopo di lui. Ma forse purtroppo l'ha perduta nella spossante, intima fatica del vivere. Si apre in questi giorni una stagione di commemorazioni e del negoziato: i diritti fondamentali, la politica estera, la flessibilità, la giustizia e gli affari interni, le istituzioni. Solo una offensiva di amp- j respiro ci consentirà di uscire dalla fortezza assediata della moneta. Non a caso abbiamo noi stessi suggerito che ci sia un momento alto di verifica delle ambizioni dell'Europa proprio a Roma, il 25 marzo, in occasione della commemorazione del quarantennale dei Trattati istitutivi delle Comunità Europee. In quella circostanza, la Conferenza intergovernativa, a livello di ministri degli Esteri, si riunirà in Campidoglio per il passaggio forse più importante sino alla sua auspicabile conclusione nel Consiglio Europeo di Amsterdam. Certamente la moneta unica ci impone una disciplina severa intorno ai valori del rigore finanziario e della flessibilità del mercato del lavoro. Essa rappresenta senz'altro per i cittadini un passaporto per l'Europa, che torna con forza di protagonista sulla scena in- ternazionale. Sulle sue regole non è lecito invocare indulgenze, al di là dei margini di flessibilità consegnati agh" stessi Trattati. Per parte nostra meglio arrestare la tentazione che vorrebbe individuare in questo o quel Paese il responsabile di nostre esclusioni a priori, gravando i nostri rapporti bilaterali di risentimenti profondi, di reciproci sospetti, di calcoli inconfessati, di dissimulate mire egemoniche. Mi sembra nostro dovere interrompere questa spirale perversa. Ma agli altri bisogna dire con altrettanta chiarezza, e lo faremo oggi a Bonn, che la sede del confronto resta quella delle istituzioni; che le regole sono solo quelle che ci siamo già dati consensualmente e non possono essere modificate in corso d'opera; che le procedure sono quelle affidate ai Trattati e non possono essere modificate dietro la spinta di esigenze domestiche, condizionando a fattori imprevedibili il più ambizioso dei nostri traguardi. Il rispetto delle regole sarà indispensabile a governare una transizione epocale e non vale soltanto per la moneta. E' valido altresì per tutte le grandi scelte dell'immediato futuro, quali ad esempio l'allargamento dell'Unione. Anche qui abbiamo convenuto dei criteri, in particolare al Consiglio Europeo di Copenaghen del 1993. Non vorremmo che ad essi si sostituissero sponsorizzazioni o preferenze che finirebbero per reintrodurre nell'Unione il male antico delle sfere di influenza, vanificando uno sforzo di coesione del quale ci accingiamo a celebrare i quaranta anni. Queste mie considerazioni vorrebbero ricondurre il dibattito sull'Europa alle sue radici. Vorrebbero anche essere l'invito ad una riflessione comune e ad una azione conseguente, perché ia nostra opera mantenga efficacia e coerenza nelle prove decisive che sono ormai alle porte. riflessione critica nella quale «La Stampa» - il giornale che ha avuto l'onore di ospitare la sua firma - si sente direttamente impegnata nella consapevolezza dell'utilità che può avere per noi tutti. Ciò che consente anche di meditare un'altra circostanza, in fondo la prima e l'ultima di Primo Levi: oltre che un grande italiano e un grande scrittore, è stato anche a suo modo un grande ebreo. Qui il discorso si farebbe lungo. Diciamo solo che non a caso in un mondo che sempre più vede incrociarsi faticosamente le proprie diversità, particolare ascolto ha ricevuto in questo secolo il messaggio di intellettuali ebrei, espressione di un popolo sparso che tanto a lungo aveva simboleggiato di per se stesso la diversità in casa d'altri. Ora che tale condizione si è diffusa, anche la cultura ebraica ha assunto - attraverso personalità come quella di Primo Levi una capacità universalistica di rivolgersi agli altri. Sicché non solo l'ebraismo italiano e della diaspora in genere, ma perfino gli israeliani debbono molto al laico sofferente che ha vissuto e se n'è andato sottovoce, aggrappato fino all'ultimo alla sua preziosa razionalità. Lamberto Dini «Nessuno può decidere da solo tempi e modi del processo di unione» Gad Lerner