«lo, testimone a rischio, dimenticato»

«lo, testimone a rischio, dimenticato» «lo, testimone a rischio, dimenticato» «Denunciando i killer di Livatino ho fatto il mio dovere, lo Stato no» ROMA. L'unico uomo politico che ha incontrato è Tano Grasso, ex deputato. Poi un pugno di poliziotti, dall'ispettore Natella, ad Antonio Manganelli e Gianni De Gennaro, «che mi hanno aiutato moltissimo, facendo anche cose che probabilmente non erano tenuti a fare». Per il resto, dello Stato ha conosciuto solo la burocrazia che a più di sei anni dal giorno in cui fece il suo dovere di cittadino non gli consente ancora di tornare ad una vita normale. «Ho scritto al presidente della Repubblica, ai ministri della Giustizia e dell'Interno dell'epoca, Cossiga, Martelli e Scotti, senza mai avere risposta. I "i avrebbe fatto piacere, ma alla fine chissenefrega. L'importante è che ora lo Stato mi sistemi quelle due o tre questioni economiche ancora pendenti, in modo che poi possa andare avanti da solo, come facevo prima». La voce di Ivano Piero Nava - testimone oculare dell'omicidio del giudice Rosario Livatino, ammazzato dalla mafia l'I 1 settembre '90, che oggi vive all'estero con una nuova identità, insieme alla moglie e ai due figli - arriva per telefono da chissà dove. L'occasione è l'uscita del film che racconta la sua storia, Testimone a rischio, tratto dal libro di Pietro Calderoni L'avventura di un uomo tranquillo, interpretato da Fabrizio Bentivoglio, per la regia di Pasquale Pozzessere. Nava l'ha visto, dice: «E' fatto bene, e a sentir pronunciare certe mie frasi ho anche sorriso. Meno male, perché ultimamente non ho avuto molte occasioni per sorridere». Nava, come ci si sente costretti a vivere sotto protezione, come un mafioso pentito? «Non bene, perché io con quella gente non c'entro niente. Io non ero un criminale, non ero destinato alla galera. Stavo dalla parte giusta della barricata, io. I pentiti sono stati e sono molto utili per combattere la mafia, ma bisogna che lo Stato pensi anche a quelli come me, che non hanno fatto niente di male». La vedova Montinaro protesta perché alcuni pentiti prendono centinaia di milioni mentre lei ha lo stipendio da impiegata. Che ne pensa? «In linea di principio ha ragione. Ma il punto non sono i pentiti, o i soldi che prendono, perché bisogna occuparsi anche di loro. Piuttosto è strano che lo Stato non trovi nelle pieghe delle sue leggi qualche rimedio per far stare meglio queste persone, le vittime. E guardi che il problema non sono nemmeno i due o i quattro mihoni al mese, che pure sono importanti, quanto il bisogno di avere qualcuno vicino, sapere che non si è soli, che c'è chi si occupa di te. E' capitato anche a me: mi sentivo come la lanterna sul molo, solo e immobile, e le assicuro che quando non hai nessuno da chiamare al telefono è dura». Che cosa rimprovera di più, allo Stato? «La burocrazia, le continue difficoltà nel fare cose che nella mia testa erano scontate. Invece bisogna sempre chiedere, e chiedere. Nel «Ho scritto a ministri e capi dello Stato Mai avuto risposte» 1990 lo Stato era impreparato ad affrontare situazioni come la mia, oggi sono un po' più organizzati. Penso anche che bisognava fare qualcosa di più per sensibilizzare la gente sul problema dei testimoni. Non per fare pubblicità a me, ma perché nessuno debba pensare: chi gliel'ha fatto fare?». Com'è la sua vita, oggi? «Oggi finalmente stiamo abbastanza bene, sto cercando di mettere in piedi una mia attività, ma devo andarci piano, perché non posso disperdere quello che lo Stato mi ha dato. In fondo, la mia aspirazione è dare un po' di tranquillità ai miei figli, che hanno 9 e 14 anni, e che non devono subire le conseguenze del mio gesto che qualcuno chiama nobile, e invece per me era solo normale». Che cosa le manca di più? «La mia storia, i legami col passato. Io oggi sono un'altra persona, Piero Nava non esiste più, anche se ce l'ho dentro e devo lottare continuamente per non farlo venire fuori. Mi manca il sole dell'Italia, il mio lavoro, i calamari ripieni che man-

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