Ucciso e sfigurato, l'ombra della vendetta di Ferdinando Camon
Sospetto nel giallo di Verona: il padre non aveva mai perdonato l'assassino di suo figlio Sospetto nel giallo di Verona: il padre non aveva mai perdonato l'assassino di suo figlio Ucciso e sfigurato, l'ombra della vendetta Ammazzò un ragazzo con l'auto, è morto allo stesso modo F =1 Un ordine insanguinato per placare un delirio VERONA. C'è il sospetto di un delitto su commissione dietro all'uccisione di Alfredo Aldighieri, 27 anni, morto a Tregnago domenica notte. E c'è pure il sospetto - tutto da verificare - che a indurre l'assassino a commettere il delitto sia stato il padre di un ragazzino che ai primi di luglio del 1995 era morto in seguito a un incidente stradale provocato da Aldighieri. La vittima del delitto - che è stata prima colpita al capo e poi arrotata da un'auto - è stata riconosciuta ieri dai genitori. Nessuno ammette che quella dell'omicidio su commissione sia l'unica pista, ma i carabinieri di San Bonifacio e di Verona oltre che il pm Angela Barbaglio, ci stanno lavorando sopra. In stato di fermo, in attesa della decisione del gip, c'è Marco Peruffo, 23 anni, da San Vito di San Bonifacio, operaio disoccupato con una lunga serie di precedenti: dal furto alla rapina, allo spaccio di droga. Peruffo è, tra l'altro, fratello di Cristina, che 6 anni fa uccise, con la complicità del fidanzato, il padre che da tempo la costringeva a violenze. Il fatto è già stato giudicato in assise a Verona, con una lieve condanna per la ragazza. Peruffo è l'ultima persona con la quale era stato visto la notte tra sabato e domenica Aldighieri, prima in una lunga serata trascorsa all'osteria e poi lungo la strada del paese di Tregnago, dove Aldighieri viveva con i suoi. La vittima, originaria del Cantone di Zurigo in Svizzera, dove i genitori erano emigrati qualche decennio fa, lavorava in una conceria nella vicina zona di Arzignano, nel Vicentino, e aveva dei precedenti per alcuni spinelli. Poca cosa, tanto da escludere la possibilità di un regolamento di conti tra spacciatori. Invece Aldighieri era una persona con grossi problemi di vista: aveva ottenuto la patente di guida con un percorso «facilitato», come è emerso di recente da un'indagine in Sicilia. Patente carpita e una scarsa capacità visiva sono tra le cause della disgrazia stradale che lo aveva avuto come protagonista il 21 giugno del '95. Quel giorno con la sua auto (ora Aldighieri viaggiava solo in moto) il giovane aveva investito due ragazzini che stavano tornando da San Bonifacio a Gambellara. Uno se l'era cavata con la frattura del bacino, l'altro, Federico Facchin, 15 anni, figlio di Benedetto, un agricoltore di Gambellara, era morto dopo una decina di giorni in rianimazione all'Ospedale Maggiore di Verona. Il padre Benedetto non aveva mai perdonato Aldighieri e non aveva mai accettato la condanna solo a un anno e quattro mesi, oltre a 4 mi- Non si esclude la pista del delitto deciso su commissione E' stato schiacciato dalle ruote TM&. 1 Il cadavere di Alfredo Aldighieri, durante il sopralluogo del magistrato e dei carabinieri boni di multa. L'uomo aveva perfino costituito un comitato di cittadini di Gambellara contro la sentenza, aveva tempestato di telefonate minacciose Aldighieri e - come hanno riferito ieri i genitori del giovane -, aveva fatto varie scenate, compresa una in pretura alla lettura della sentenza. «Nostro figlio - hanno raccontato ieri i genitori di Aldighieri - non si arrischiava ad uscire dal paese perché temeva di essere ucciso. Non arrivava mai fino alla pianura, a San Bonifacio». Alcuni mesi fa il giovane Aldighieri aveva fatto una denuncia formale ai carabinieri di Tregnago nei confronti del Facchin. Per andare al lavoro Aldighieri doveva superare un passo e scendere poi nella Valle di Chiampo senza dover arrivare in pianura a San Bonifacio e a Gambellara. Peruffo invece è andato a trovarlo proprio all'osteria di Tregnago. Fino a quel punto tutti concordano. Ma le inda¬ gini si fermano a quel punto, quando verso le 3 di mattina Aldighieri, vestito con una tuta sportiva e tre maglioni, è uscito dall'osteria insieme a Peruffo. Del dopo si sa solo che, come ha accertato l'autopsia - il giovane è stato colpito al capo con una spranga di ferro. L'aggressore lo ha successivamente arrotato più volte con l'auto procurandogli lo schiacciamento della cassa toracica. Il seguito delle indagini? Nel cortile della caserma dei carabinieri c'è parcheggiata un'auto sospetta, rimasta come indizio di una lunga notte di indagini che aveva visto al comando carabinieri altri sospetti, poi dopo l'interrogatorio, lasciati liberi dai magistrati e dai carabinieri. Finora Peruffo non ha ammesso alcun addebito. Intanto si attende l'interrogatorio di Benedetto Facchin. Franco Ruffo ANALISI ESSUNO lo dichiara espressamente, ma nel cervello di chi indaga sul nuovo delitto a Est di Verona (una zona che pare destinata ai delitti: mezza dozzina di cadaveri in mezza dozzina d'anni, a partire dal grande parricidio-matricidio di Pietro Maso; delitto si intreccia con delitto, fino a disegnare una «terra di delitti», e assassino si intreccia con assassino, fino a costituire famiglie di assassini), nel cervello dei poliziotti sta entrando una ipotesi che, se risulterà vera, manderà una nuova luce, crudele quanto non si poteva neanche immaginare, sul «bisogno di vendetta». Non di giustizia, ma di vendetta. Una vendetta che può esprimersi così: qualcuno mi ha fatto del male, per sbaglio; io voglio fargli lo stesso male, con intenzione. Esempio, e potrebbe (ripeto: potrebbe) spiegare questo ennesimo delitto di Verona Est: uno mi ammazza il figlio in un incidente colposo, gli sbatte addosso con l'auto e lo schiaccia; io faccio in modo che, anni dopo («la vendetta è un piatto che si serve freddo»), lui sia ucciso; non a colpi di pistola, non fatto precipitare dalla tromba delle scale, no: deve venire schiacciato con l'auto, più volte, fin che il cuore gli scoppia. Questo è il sospetto che potrebbe spiegare il nuovo delitto veronese. Un uomo trovato con la testa devastata dalle sprangate, e col corpo segnato dal passaggio delle ruote di un'auto: un passaggio studiato, in modo che una ruota gli salisse sul cranio. L'assassino avrebbe confessato di avergli dato dieci colpi in testa con un tondino di ferro, e poi di averlo schiacciato con l'auto. Nient'altro. Nessun movente. Era sotto droga. Ma, strano, molto strano, viene da una famiglia dove sei anni fa è stato ucciso il padre, un padrepadrone, che violentava una figlia. Fu la figlia a ucciderlo, con l'accordo, pare, di tutti. La mia memoria s'intorbida, troppi delitti la intasano, tutti in quest'area. La memoria (e spero che non faccia cortocircuito con qualche altro omicidio) mi dice che la ragazza, uscendo dalla camera doI ve aveva sparato al padre, anI nunciò a tutti: «Gò copà el ma- to», ho ucciso il matto. «Copare el mato» è un'espressione che nessun italiano extra-veneto può comprendere in tutta la sua pregnanza: nel dialetto veneto la frase allittera con un'altra frase, frequentissima nelle campagne, «gò copà el mas-cio», ho ucciso il maiale. Quanta storia, quanti drammi, e che nuova morale, costruita nell'abbandono, nella separatezza, in un mondo fuori dal mondo, c'è in quel!'«ammazzare il padre-matto-maiale». Non c'è Stato, Dio, carabinieri, legge che ti diano giustizia. Sei sola con un padre-matto, e devi cavartela. Come si fa con i maiali. Adesso è la volta del fratello. Ha ucciso senza movente. Ma ha ucciso un uomo che due anni fa, in un incidente stradale, aveva investito e ammazzato un ragazzino di 15 anni: senza colpa, pare, visto che la condanna fu mite. Il padre del ragazzino avrebbe sempre detto, anche in minacce scritte: «Ti farò fare la stessa fine». Ha assoldato un killer? Gli ha ordinato: «Non sparargli, ma passagli sopra con l'auto»? «Schiaccialo»? Se dovesse risultare così, tutti si scateneranno: parleranno di barbarie, crudeltà, primitivismo. Sì, certo, c'è tutto questo. Ma anche qualcosa di diverso, difficile da portare alla luce. Se quel padre avesse veramente coltivato, per due anni, il bisogno di «questa» vendetta, fino ad attuarla per filo e per segno, vorrebbe dire che il modo in cui è morto il figlio lo ossessionava, gli bruciava nel cervello come un focolaio (anche in senso clinico), e lui aveva bisogno che qualcun altro, non suo figlio, morisse così: e non importa se era innocente, anche suo figlio lo era. E così ha fatto in modo che, nel suo cervello, l'uomo schiacciato dall'auto fosse un altro, non il figlio. La morte dell'altro lo placa, perché compensa la morte del figlio. E' un delirio, naturalmente. Se il delirio continua, delitto scaccia delitto. Parlando col figlio, gli dirà: «Sei contento? gli ho fatto quel che ti ha fatto». Ma se toma la ragione, è la fine: scoprirà che nel cervello non ha un omicidio o l'altro, ma tutt'e due. E il secondo è più assurdo del primo. Ferdinando Camon Vffffll w//;>. mmm////7*
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