Gabinio, il geometra della luce

Ultime due settimane per la rassegna torinese del grande fotografo Ultime due settimane per la rassegna torinese del grande fotografo Gabinio, il geometra della luce Un occhio antipittorico nella città industriale j\ TORINO I N consonanza con il suo I temperamento schivo e I riservato, tutt'altro che * I consapevole e men che meno protagonista, quando Mario Gabinio morì nella sua Torino che aveva documentato con il lucido accanimento di lastre apparentemente glabre di ogni sentimento, ma così ricche invece di effetti geometrici e di passioni segrete - era il 1938 - non a caso a celebrarlo con un debito necrologio fu soltanto il foglio amatoriale del Club Alpino Itahano, a cui era stato così vicino nei suoi primi anni di esordio fotografico. La Torino artistica sembrava averlo dimenticato: e ci volle un'intuizione di Andreina Griseri e poi un primo assaggio alla Fondazione Agnelli nel '74 e infine il libro Einaudi curato da Avigdor per riportare alla luce questo pioniere importante della fotografia documentaria di città, poi cautamente vicino alle ragioni dell'immagine sperimentale, pur senza sposarne le ragioni più esteriori e gridate. Dopo anni di intenso lavoro d'archivio e ricerca, la Galleria d'Arte Moderna, che possiede il prezioso fondo Gabinio ricco di oltre 12 mila stampe e migliaia di lastre finalmente catalogate, ha allestito, sino al 16 febbraio, grazie anche a una saggia e gradevole messa in scena, una scelta ragionata e seducente di questa sterminata produzione: dalle prime immagini amatoriali di escursionisti in festa e massicci montuosi in possente solitudine, attraverso una documentazione capillare e sapiente della città che si trasforma e di una Torino che scompare già alla soglia del 1900, si giunge a una profonda e sorprendente maturità, con immagini scabre di oggetti immobilizzati nella loro estraneità o esaltati da creativi effetti di luce. Un artigiano modesto, questo escursionista costretto a lasciare gli studi per motivi di famiglia e a diventare amministratore delle Ferrovie. Questo espertissimo dilettante che non riuscirà altro che nei tardi anni a intensificare il proprio «mestiere» di fotografo, iniziato proprio per docu¬ SCEGLIENDO TRA L mentare le gite alpine e che quasi mai otterrà di veder firmate le proprie pur frequenti immagini sui fogli locali (come Galleria o Torino). Che esporrà anche a Stoccolma, Johannesburg e Vienna, raggiungendo risultati ragguardevoli, ma che troppo a lungo la sua città finì per obliare. Come scrive convincentemente la Griseri: «Uno spazio teso, spesso disabitato o quasi, (indagato) con un segno che rinunzia per fortuna nostra a ogni inflessione dialettale, approdando ad un paradigma angoscioso». Come ricordava l'erede Ivan Alessio: «Arguto, sapeva accattivarsi le simpatie delle persone, anche allontanandole dall'in¬ Barcellona e Cordova quadratura». E' vero, una tendenza antipittoricista nello spogliare la realtà di ogni aneddoto o accidente che non sia pura geometria, algida forma decantata dal contingente (anche quando si documentano le pose «etnografiche» dei portinai appisolati sui paracarri dei portoni fatiscenti o gli orgogliosi operai disseminati come su una scacchiera proletaria, per costruire un gasometro della città che si fa lentamente industriale). E' ancora la Torino nera e stregonesca descritta da De Amicis: «Qui la città invecchia improvvisamente di parecchi secoli, si oscura, si stringe, s'intrica, si fa povera e malinconica, le vie serpeggiano rilanciano il trasgressiv Nella foto grande, la scala elicoidale del Palazzo Opera Pia San Paolo; qui sopra, l'antico Albergo dell'Agnello: due immagini torinesi di Mario Gabinio e si spezzano bizzarramente, fiancheggiate di case alte e lugubri, divise da una striscia di cielo, che s'apron su portoni bassi e cavernosi, da cui si vedono cortili neri, scalette cupe, anditi bui, vicoli senza uscita, sfondi umidi e tristi di chiostro e di prigione». Ma Gabinio la guarda con il suo occhio esatto ed esattore, che era anche quello del Bauhaus, di Umbo e Moholy-Magy, dei profeti dell'avanguardia. Di chi chiede non melodramma e letteratura, ma ascisse e pura poesia del geometrico: la specificità disarmante dell'obiettivo. Con scorci inediti e sorprendenti, che irritavano Savinio («sche- ivo Romero De Torres matismo edificante tra i quali dominò la strada solitaria e i suoi selci visti dall'alto») e che paiono derivare dall'ostranenie sovietica, quel procedimento straniarne che ci permette di scoprire, attraverso la lente e la lastra, il mondo mai veramente «visto». Come ricorda Pierangelo Cavanna, nel composito catalogo Allemandi, Gabinio potrebbe anche aver conosciuto, attraverso le mostre cui esponeva, i grandi innovatori, per esempio Rodcenko, documentato in alcune esposizioni torinesi, insieme a Marami, Leiss, Bragaglia. Certamente aveva letto il manifesto futurista di Tato e Marinetti («Il dramma delle ombre isolate dagli oggetti stessi, le drammatiche sproporzioni, la spettralizzazione di alcune parti del corpo») e non poteva non esser rimasto suggesionato dalle parole di Giò Ponti su Domus, che riteneva la fotografia «una vista indipendente, astratta, disumana. Quali e quante cose oggi ci appaiono, quindi sono, solo attraverso l'immagine fotografica!». Ma l'occhio «costruttivista» di Gabinio, quello stesso che documenta lo sventramento della vecchia città per far spazio alla littoria via Roma (ed usa il fotomontaggio per sottolineare la simmetria rispecchiata), quello sguardo impassibile che registra i Contrasti ottici tra ferro e barocco, o gli antri razionalisti del Lingotto, è davvero originale e incomparabile. Ed ottiene i risultati migliori nelle immagini di rispecchiamento deformato nel ghiaccio delle vetrine, oppure della luce pulviscolare che filtra attraverso cortili e portoni o ancora dentro la solitudine aspra delle cose, disertate dall'umano. Quella sequenza di piatti casoratiani in attesa della beneficenza, quei pitali da Balon (che evocano certe fotografie del pittore Cavalli) oppure quella lucida Macchina del caffè misteriosa, giustamente considerata un autoritratto deformato. E infine le astratte e fulminanti icone di scale viste dal basso, in una vertiginosa follia dell'esattezza. Marco Vailora Uno degli acquarelli di Marianna Accerboni per la mostra ispirata al «Flauto magico», a Trieste in un balletto delirante. TRIESTE. Studio d'Arte Bassanese. «Un Immaginario per il Flauto Magico» (fino al 10 marzo). Questa mostra propone un gruppo di artisti che ispirandosi al Flauto Magico di Mozart, che è andato in scena fino a ieri al Teatro Verdi, hanno creato itinerari fantastici ispirati al tema magico del «flauto»: Marianna Accerboni, Michael Goldberg, Anne Marie Heinrich, Carmen Morales, Susanna Tanger, Lynn Umlauf, Emanuele Luzzati. TORINO. Studio Le Immagini. «Renata Rampazzi» (fino al 26 febbraio). La pittura della Rampazzi, come dice Dacia Maraini nella limpida presentazione, è sostanziata di masse ondose, come nell'acqua marina. La cromia crea forme inquietanti, che si muovono a dar vita a misteriose metamorfosi. Sono esposti olii, pastelli, acquarelli. Marisa Vescovo