ALL'OSTERIA DI PAVANA NASCE IL GIALLO RURALE

ALL'OSTERIA DI PAVANA NASCE IL GIALLO RURALE ALL'OSTERIA DI PAVANA NASCE IL GIALLO RURALE A cena con Guccini e Macchiavelli in attesa di «Macaronì » Jazz MA AL VERO MINCUS MANCANO 600 PAGINE I L jazz reca in sé - nella tormentata umanità dei suoi protagonisti, nell'humus sociale che l'ha generato, nelle vicende che ne hanno accompagnato l'evoluzione - i caratteri della «letterarietà». Billie Holiday, Miles Davis, Chet Baker, Charlie Parker, sono figure romanzesche, perfetti «maudit» belli e perdenti, dolorosi simboli d'autodistruzione o orgogliosi ribelli. E romanzeschi (suscettibili di elaborazione romanzesca) sono gli ambienti del jazz: il Sud dello schiavismo, la New Orleans delle case di tolleranza, i locali di Chicago e Kansas City popolati di gangsters e donne facili, una New York frenetica e perversa. Eppure, pochi hanno romanzato - narrato - il jazz, l'America del jazz, come Balzac e Zola la Francia dell'Ottocento, o Dickens la Londra della Rivoluzione industriale: Fitzgerald, ecco; e poi Kerouac. MACARONI* Romanzo di santi e delinquenti Francesco Guccini e Loriano Macchiavelli Mondadori pp. 300 L 29.000 La strana coppia al lavoro tra ubriachi, emigranti, preti morti, montanari e nebbie Tra dialetti e UCCINI comincia con i garganella maccheroncini rigati romagnoli, all'aglio, olio e peperoncino, Macchiavelli con le tagliatelle al ragù: cena da Vito, osteria a pochi passi dalla casa di Guccini, per festeggiare l'uscita di Macaronì, storia gialla a quattro mani di poveri cristi sull'Appennino tosco-emiliano fra Otto e Novecento, una terra di «povertà straziante» da cui la gente fuggiva, emigrava, e poi ci tornava con segreti tremendi. Questi paesaggi di quercioli, noccioli e castagni, queste facce di ieri, queste vite avventurose ormai dimenticate hanno unito i due scrittori così diversi: Guccini ha l'aria del precario, dell'errante, del cantastorie arruffato con barba e maglione, Macchiavelli quella della persona metodica e stanziale. Diversi sì, ma montanari, e questo è l'essenziale: il paesino senza nome del romanzo, dove affiorano nel fiume e nella neve i corpi di quattro morti ammazzati, fonde Pavana, che è per Guccini quel che Macondo è per Garda Màrquez, con Vergato, il paese di Macchiavelli. Finisce la prima bottiglia di valpolicella. «Pablob) chiama Guccini. Paolo, l'oste, ne porta un'altra. Per secondo, Guccini sceglie cotechino e fagioli, Macchiavelli un po' di verdura. Guccini non beve acqua. «Umiltà, questo ci ha dato la montagna, che non fa prevaricare», dice Loriano Macchiavelli, 62 anni, più di venti gialli con il sergente Sarti Antonio protagonista, portato sul piccolo schermo da Gianni Cavina. «Prudenza, la chiamiamo a Pavana», aggiunge Francesco Guccini, tante canzoni di successo e due bei libri autobiografici, Croniche epafaniche e Vacca d'un cane (Feltrinelli), libri dal linguaggio in tumulto, fluviale, fitto di ricordi dialettali. Di anni Guccini ne ha già 56 anni, la barba è sempre più grigia. «Ogni tanto mi fermavo, non sapevo più andare avanti - continua Macchiavelli -. Discutendo fra noi saltava fuori la soluzione migliore. L'umile Francesco ha accettato anche che lo stile fosse unico e semplice... Abbiamo cominciato quando m'ha detto: "Ho quest'idea, te la regalo, te che sei un giallista". "Allora scriviamo insieme", abbiamo deciso. Alla Rizzoli non gli interessava, Franchini della Mondadori invece ha insistito. Francesco m'ha dato gli spunti del prete ucciso, dell'ubriaco che scioglie la neve dove è disteso con il calore del vino in corpo, degli emigranti, del linguaggio delle carte, altri ancora». «Senza Loriano non ce l'avrei fatta — ammette Guccini, amante dei gialli di Rex Stout e Stuart Kaminsky —. L'uomo del plot è lui. Insomma, non ha scritto nessuno di noi ma un altro, un terzo scrittore, come dicevano Borges e Bioy Casares». Non sempre andava tutto liscio. Macchiavelli telefonava a Guccini alle undici o a mezzogiorno e Guccini dormiva sempre, quando non era in giro a far concerti. Difficile trovarsi. E poi Guccini lavorava su un Apple e a Macchiavelli toccava riscrivergli tutto per far entrare il testo nel suo computer, incompatibile con l'Apple. Piccole cose: nulla, di fronte alla bellezza della storia che venivano scoprendo. Macchiavelli alla biblioteca dell'Archiginnasio trovava testi dei primi del secolo con le tragedie di quei loro montanari che scappavano nel mondo: «C'era anche la tratta dei bambini. Gli davano delle statuine fatte a Lucca e loro le vendevano a Marsiglia stendendo tappeti in terra come uggi gli extracomunitari da noi». Guccini parla dello zio Enrico finito nell'Illinois, nelle miniere di carbone, e proprio l'altro giorno su Internet ha trovato notizie di una Guccini Gina laggiù in America. Guccini chiede un whisky, poi un altro. Pablo porta l'intera bottiglia. Oggi a Pavana sono rimasti in 800 abitanti e c'è pure una barista che viene dal Galles. «Noi Guccini siamo mugnai fin dal Cinquecento. Mio padre è stato il PEGGIO DI UN BASTARDO Charles Mingus Marcos y Marcos pp. 319. L. 24.000 BOLOGNA Tra dialetti e computer non compatibili. Farle di aiutarsi come se a scrivere fosse un terzo Né gli uomini del jazz hanno saputo (o voluto) raccontarsi sulla pagina scritta con la stessa lancinante verità della loro musica. Il profluvio di «autobiografie» attribuite ai titani di quella musica - e in genere compilate da diligenti ghost writers - raramente oltrepassa il confine della pubblicazione per fans, studiosi o curiosi. Soltanto due titoli hanno a nostro avviso un valore letterario: Ecco i blues di Milton Mezzrow (peraltro musicista minorissimo); e soprattutto La signora canta i blues (Feltrinelli), l'autobiografia di Billie Holiday redatta da William Dufty nel '56, geniale e affascinante fin dal memorabile incipit: «La mamma e il babbo erano ancora due ragazzi quando si sposarono. Lui aveva diciott'anni, lei sedici, io tre». Terzo capolavoro poteva essere il romanzo-autobiografia di Charles Mingus, Peggio di un bastardo («Beneath the underdog»), uscito in America nel '71, tradotto nel '79 (anno della morte dell'artista) da II Formichiere, e che adesso l'editore Marcos y Marcos manda nuovamente in libreria nella stessa versione di Stefano Torossi, rivista da Claudio Galuzzi. Poteva essere un capolavoro perché l'autore, Mingus, era un genio. Genio della musica, d'accordo: ma i geni, si presume, restano tali pur affrontando arti differenti. Eppure, Peggio di un bastardo non è un capolavoro. Come autobiografia, delude; del Mingus musicista, della vita e del pensiero del musicista, nel libro c'è ben poco. Prevale il dramma del sanguemisto, figlio di un nero con ascendenti bianchi e pellerossa. Educato dal padre a disprezzare i neri, e a lungo rifiutato dai neri e dai bianchi, Mingus è un uomo che si ribella a una società che non lo accetta; ma la sua arma è il sesso. Afferma la propria potenza sessuale possedendo donne bianche, nere e meticce fino a farle prostituire per lui. Da Peggio di un bastardo il lettore apprende ben poco sulla musica da Mingus; molto sulle sue doti amatorie. Né il libro è un grande romanzo: ripetitivo, compiaciuto, imprigionato in un registro di scrittura che non sublima il turpiloquio. Mingus era un genio, e un folle. Ma né la genialità, né la foiba, animano le sue pagine. Non quelle che ci è dato di leggere: perché «Peggio di un bastardo è un'opera mutila. La versione originale era quasi doppia rispetto a quanto pubblicato, con un'operazione di «sfrondamento» che ci lascia perplessi. Forse, il vero Mingus è in quelle 600 pagine ancora inedite. La vedova di Mingus, Sue Graham Ungaro, sta preparando l'edizione integrale. Soltanto allora sapremo se la letteratura jazz ha finalmente prodotto un capolavoro. Francesco Guccini Sotto: Loriano Macchiavelli TRAMA CON DELITTI