ECO Un paese troppo piccolo per tanti cervelli

troppo piccob per tanti cervelli troppo piccob per tanti cervelli BMILANO 1UTTA Italia, odiate Roride, suona il coro dei gitici. Il Paese si impanta I à nella mediocrità? Dove gli altrilsi preparano alla sfida della gloializzazione noi ci balocchiamo òn falsi miti, tipo Bossi e Di Pietri come ha detto Renato Ruggierce scritto Sergio Romano su questtcolonne. «Cervelli in fuga dall'Itlia di Prodi», ha titolato la interaDrima pagina II Giornale. Il '97 i presenta sotto il segno del pessimismo? C'è chinon è d'accordo, anche senza inulgere a un ottimismo poco proiuttivo. Almeno sulla fuga dei crvelli reagisce Umberto Eco, chejia qualche titolo per intervenire L'intellettuale italiano più noto'iel mondo, visiting professor injante università europee e americpe, ma sempre legato alla sua caledra di Bologna, replica con duasuccessive «Bustine di Minerva sull'Espresso. Nella prima, non e cognomi alla mano, smonta i campagna del Giornale, che nlle liste dei fuggiaschi ha indicatodocenti ormai all'estero da decelli. Nella seconda lancia una prcocazione: il problema non è dapochi cervelli che fuggono, ma dquelli in eccesso che siamo costitti a esportare. Provocazione ae attira naturalmente una contoreplica di Sergio Ricossa; le plveri si riaccendono. E chiedoncdi discuterne con il protagonisttdella polemica. Profesor Eco, c'è davvero una siper produzione di teste pesanti, oggi in Italia? Ed è vero che le nostre istituzioni jon sono così disastrate, cone l'eccesso di cervelli fornit dalle Università farebbécredere? «Cerco a spiegarle. Le racconto la mia esprienza sino a tre anni fa. Dopo adiamo iniziato a Bologna il corso |li Scienze della comunicazionebhe c'è anche a Torino) a numerobrogrammato e lì le cose sono divrse, perché gli studenti frequento e possiamo seguirli tutti. M<prima la mia esperienza era quesa: su tre giorni di lezione settimaale, il giovedì non potevo dire: "Cune si diceva ieri" perché di giorni in giorno gli studenti cambiavano, alcuni venivano una volta og^i tanto e li si incontrava solo all'aline. Dopo un poco imparavo ariconoscere i pochi che erano sénpre lì, si iniziava ad avere da rapporti continui, li si seguiva )ene, venivano ai seminari. Mqale: a questi "eletti" dedicavo gl'attenzione superiore a quella cip in un'università americana si èdica a un dottorando {a un gradate student) ed è ovvio che alla fine, arrivato alla tesi (quella d primo livello), era molto «A il 1954. Un parlamentate comunista dal promettente futuro, Alessandro riatta, di Imperia, anni 36, ippassionato di lettere b ll Nl di più bravo di un suo coetaneo americano. E gli altri? Perduti. L'università italiana che pare la più democratica del mondo, aperta a tutti, è invece la più selettiva. Quindi, come dicevo nel mio articolo, produciamo pochi laureati generici, e produciamo ottimi futuri ricercatori, ad alto livello. E' ovvio che quando questi vanno all'estero fanno un'ottima figura». Ma se noi continuiamo a esportare il meglio, il risultato non è lo stesso? «Diamo per intanto una risposta semplice e molto "commerciale". Se la Fiat produce dieci macchine e in Italia ne può vendere solo cinque e il resto lo esporta, non è che mandi via le macchine migliori e lasci in Italia le peggiori. Parto dal principio che se produciamo dieci buoni ricercatori sia¬ no a quando, l'anno scorso, non si fanno vivi i collaboratori dell'editore Giulio Einaudi. Il libro uscirà la prossima settimana per i tipi dello Struzzo. Titolo: L'altra Resistenza. Introduzione di Enzo Collotti. Parla di un argomento poco studiato della nostra storia: chi furono, quanti furono, come si comportarono i militari italiani internati nei campi di concentramento tedeschi. Natta è stato uno di loro. Sottotenente di artiglieria, faceva parte di un contingente che operava nel Mar Egeo. Ferito il 9 settembre, all'indomani dell'armistizio, venne deportato e visse di persona la lunga odissea dei prigionieri italiani che rifiutarono di aderire alla Repubblica sociale. Questa odissea è l'oggetto del libro. Su oltre 600 mila soldati e ufficiali internati in Germania, dopo l'8 settembre, soltanto diecimila aderirono alla Rsi e soltanto diecimila collaborarono fattivamente con fascisti e nazisti. La grande massa che rifiutò di giurare a Hitler e a Mussolini divenne og- getto di maltrattamenti persecutori. Gli accordi della Convenzione di Ginevra sul trattamento dei prigionieri di guerra vennero ignorati. Durissimo si rivelò lo sfruttamento dei prigionieri nei lavori forzati. Irrimediabile il progressivo decadimento fisico di quasi tutti, in numerosi casi fino alla morte (nei Lager perirono, fra gli altri, diciassette generali italiani). Quando il libro è stato scritto, l'argomento era praticamente ignorato (a parte il racconto II campo degli ufficiali di Giampiero Carocci). Rappresentava una novità. Nella sua introduzione Enzo Collotti, storico della Germania fra le Il nostro intellettuale più noto nel mondo replica alle accuse dopo la lunga polemica sulla «mediocrità nazionale» no tutti di livello più o meno uguale. Il problema è: sarebbe bene se restassero tutti in Italia? In linea di principio sì, ma le nostre strutture e di educazione e di ricerca non sono sufficienti ad assorbirli tutti. Abbiamo fatto male a produrli? No, se avevano la vocazione, il problema è di non farli lavorare tanto tempo dandogli false speranze e non frustrarli. Per il momento non siamo in grado di assorbirli tutti, punto e basta. E allora si pone il problema di come esportarli, di aiutare a trovare occasioni all'estero, non di lasciarli scappare per disperazione. D'altra parte se c'è una richiesta di bravi ingegneri, ben pagati, in certe zone del Terzo Mondo, non consideriamo mica una disgrazia che là si installino dei tecnici italiani, che magari da noi lavorerebbero sottopagati...». Esce il libro dell'ex segretario del pei, bocciato nel '54 dall'editrice del partito