«Contro Di Pietro non c'è stato complotto»

^^tm* i giudici di Brescia assolvono tutti: l'ex ministro Previti, Paolo Berlusconi e gli ispettori Dinacci e De Biase ^^tm* i giudici di Brescia assolvono tutti: l'ex ministro Previti, Paolo Berlusconi e gli ispettori Dinacci e De Biase «Contro Di Pietro non c'è stato complotto» p^ =^ L'avvocato dell'expm: sentenza giusta, altri i colpevoli BRESCIA DAL NOSTRO INVIATO «In nome del popolo italiano», annuncia alle 11 e 44 il giudice Francesco Maddalo. Poi ci mette meno di 20 secondi per dire che non ci fu un complotto ai danni di Antonio Di Pietro, che nessuno lo costrinse a lasciare la magistratura utilizzando le rivelazioni di Giancarlo Gorrini della Maa, quello dei 100 milioni e della Mercedes. E che - soprattutto - l'ex ministro Cesare Previti, Paolo Berlusconi e gli ispettori ministeriali Ugo Dinacci e Domenico De Biase devono essere assolti perché «il fatto non sussiste». Non furono loro - sostiene il tribunale - a convincere l'allora magistrato di Mani pulite a spegnere i computer e a togliersi la toga. Dopo quasi due anni di indagine, 4 mesi di processo e quasi 50 ore di camera di consiglio, frana così l'ultimo troncone delle accuse formulate a suo tempo da Fabio Salamene e Silvio Bonfigli, i due pm bresciani estromessi dal processo per «inimicizia grave» nei confronti di Antonio Di Pietro. Al loro posto, sul banco dell'accusa, la procura generale aveva nominato Raimondo Giustozzi. Che in 20 giorni si legge PROCESSO ALLA FALANGE ARMATA PROMA iaccia o non piaccia, a me non mi condiziona nessuno». Parola di Antonio Di Pietro. Il solito Tonino indignato, brusco, un po' guascone, ieri vestiva i panni di testimone al processo sulla Falange Armata. La misteriosa organizzazione che per anni ha tempestato di avvertimenti le massime autorità dello Stato a un certo punto prese a minacciare anche l'uomo simbolo di Mani Pulite. Una sequela di telefonate anonime, molto particolareggiate. Anche troppo. Tutta questa attività telefonica della Falange Armata, secondo Di Pietro, serviva a delegittimarlo e intimidirlo. «Per costringermi - commenta - a non svolgere ciò che avrei potuto svolgere. C'era chi telefonava come Falange, chi ha svolto altre attività. Salvo che questi episodi non siano collegati tra loro. Ma questi collegamenti non spetta a me farlo, quanto all'autorità giudiziaria». Antonio Di Pietro - non ne fa mistero - non ne può proprio più di minacce, di dossier e di giornalisti. «Le minacce - ricorda con rabbia, e voce incrinata non mi preoccupano, ma hanno creato problemi soprattutto alla mia famiglia. Un giornalista telefonò a mia madre, dicendole che volevano uccidermi e chiedendo cosa ne pensasse. Mia madre venne colta da ictus e dopo alcuni mesi e morta. Ma questa è un'altra storia». E le minacce? «Messaggi per tenere alta la tensione». Ecco, quella che Di Pietro individua è una nuova strategia della tensione, aggiornata e corretta ai tempi. Lo fa capire quando ricostruisce in parallelo le misteriose telefonate e certi avvenimenti molto poco conosciuti. Gli attacchi coincidono quasi sempre con le iniziative giudiziarie di Di Pietro stesso o del Pool. Uno dei comunicati che più lo hanno lasciato perplesso risale al 15 marzo 1993, quando gli minacciarono il sequestro del figlio se non avesse rivelato cosa era andato a fare alla Farnesina. «Indica una notizia che non era nota: la riunione con una delegazione di Hong Kong per stabilire un canale che consentisse di acquisire documentazione bancaria del cosiddetto sistemaTroielli». Ci sono poi ie telefonate o i comunicati più recenti, degli ultimi due anni. Titoli, a mo' di esempio: «Di Pietro deve cambiare pelle», «Di Pietro ha chiuso», «Per Di Pietro c'è il tritolo». Replica l'ex magistrato: «Si riferiscono al periodo in cui dissi che non volevo schierarmi con il Polo. Quelli del '96 vanno ricollegati ai miei primi prosciogli- IL FOGLI® dobbiamo pure a Piercamillo Davigo». Poi spiega: «Grazie alle sue dichiarazioni al processo, si è dimostrato che non c'era stata alcuna concussione da parte di Previti. E' stato infatti Davigo a raccontare che il suo collega Di Pietro già da tempo gli aveva detto che voleva lasciare la magistratura». Naturalmente soddisfatti sono anche gli avvocati dei due ispettori ministeriali, Ugo Dinacci e Domenico De Biase. Che aprirono e chiusero in un baleno, il giorno dopo le dimissioni di Di Pietro, l'inchiesta segreta sull'alloia magistrato simbolo di Mani pulite. «Sì, ma De Biase non ha mai fatto parte di alcun complotto, perché non lo lega nessun vincolo di interesse, né alcun patrimonio ideale con coloro che potevano avere interesse a schedare Di Pietro», commenta l'avvocato Renzo Nardin. In linea con Giuseppe Frigo, uno dei difensori di Ugo Dinacci: «Il tribunale ha accolto in pieno le richieste dell'accusa e della difesa». Polemico con Salamone, invece, l'altro difensore, Filippo Dinacci: «Mi rammarico che non abbia evitato di rilasciare dichiarazioni». Fabio Potetti

Luoghi citati: Brescia, Hong Kong