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TARKmmKU TARKmmKU «Shine» di Stephen Hicks viene proiettato al cinema King CHISSÀ' se un giorno un italiano, invece di «Nirvana» o «Il ciclone», riuscirà a girare «Shine». Improbabile: ci vorrebbe un regista più profondo di Pieraccioni e meno presuntuoso di Salvatores. «Shine» è un bel film e basta. E un bel film è come l'amore: non c'è altro da aggiungere. L'aggettivo che tenta di definire un sentimento finisce solo per limitarlo. Il pubblico di «Shine» si alza dopo i titoli di coda con gli occhi che hanno pianto, ma non sono le solite lacrime televisive da incontro a sorpresa con la bisnonna scordata quarant'anni prima in Ecuador o da love-story fra figlia orfana di madre sieropositiva ed extracomunitario licenziato in attesa di sfratto. La storia è molto semplice. Quindi funziona. C'è un personaggio animato da un forte desiderio, suonare, e disturbato da un forte ostacolo, un padre ebreo possessivo, il marito della mamma di Woody Alien che in «New York St.ories» si ergeva sopra i grattacieli per ricordare al suo bimbo cinquantenne di indossare la maglietta. L'australiano «Shine» non è costato centinaia di miliardi. L' unico effetto speciale è il rallentatore. A parte un cammeo di John Gielgud, gli attori sono di buon livello ma di medio ingaggio. D'ora in poi, ogni volta che sentirete un regista europeo nascondere la sua incapacità narrativa dietro l'alibi dello strapotere di Hollywood, pensate a «Shine». Alla sua leggerezza. Alla sua profondità. Al fatto che, al di fuori del mondo anglosassone, si è smarrita la capacità di raccontare storie. I nostri film sono i prodotti contorti di una società che non conosce più neppure i bagliori della decadenza e ormai si avvita solo su sé stessa.

Luoghi citati: Hollywood, New York