«La mia terra delle nuove promesse» di Franco Pantarelli

«La mia terra delle nuove promesse» «La mia terra delle nuove promesse» II secondo giuramento del presidente Clinton Prima fra tutte, la divisione razziale. Nel secolo scorso si è posto fine «alla vergogna della schiavitù», in questo secolo sono stati compiuti molti passi avanti verso la fine della discriminazione nei confronti dei neri, delle donne, delle minoranze in genere. Il prossimo secolo dovrà essere ricordato come «quello in cui del problema del razzismo si sarà persa ogni traccia», ha detto Clinton con enfasi, rendendo omaggio alla memoria di Martin Luther King. Non ha annunciato programmi, il Presidente. Non ha indicato iniziative specifiche da prendere. Il suo discorso voleva essere una specie di «messa a punto storica», un invito a «pensare in grande», riservandosi - hanno spiegato i suoi uomini - di essere più circostanziato e specifico a febbraio, quando a Camere riunite pronuncerà il discorso sullo Stato dell'Unione. Ma a un certo punto ha dovuto per forza ac¬ cennare alla realtà della vita politica e ai «veleni» che l'hanno ammorbata negli ultimi due anni. «Il popolo americano - ha detto a un certo punto - ha confermato ai loro posti un Presidente di un partito e un Congresso di un altro. Sicuramente non lo ha fatto per perpetuare la politica della rissa e della partigianeria estrema. No, il popolo ci ha chiamato a risolvere i problemi e ad andare avanti con la nostra missione. L'America ci chiede grandi cose e ne ha il diritto, e niente di grande si può fare, se si è piccoli». Newt Gingrich, seduto a pochi metri da Clinton nei posti riservati ai deputati, ascoltava intento, senza la sua solita espressione beffarda, e più tardi lo stesso portavoce di Clinton, Mike McCurry, ha detto che alcune «conversazioni private» avvenute poco prima della cerimonia fanno ben sperare in una stagione della politica washingtoniana più «serena». L'interpretazione di tutti, naturalmente, è stata che visto che ora Gingrich si trova invischiato in problemi «etici» molto simili a quelli di Clinton, scendere a patti dovrebbe essere più facile. Il momento più applaudito del discorso è stato quando Clinton ha affermato che «il governo non è il problema e non è la soluzione. La soluzione siamo noi: il popolo americano». E non era soltanto una frase ad effetto. In sostanza si trattava di marcare la differenza fra oggi e quattro anni fa, quandi lui arrivò dall'Arkansas dopo dodici anni di egemonia repubblicana e si presentò come l'uomo del cambiamento, con ambiziosi progetti di grandi riforme. Ora, con quella frase Clinton ha in pratica ribadito che il concetto base del credo repubblicano «meno conta il governo e meglio è», è stato da lui felicemente abbracciato. Del resto, non è stato questo suo «aggiornamento» a consentirgli Ma se la concordia politica che lui ha auspicato si realizzerà, quale sarà il premio? Che cosa ci sarà dall'altra parte del «ponte verso il nuovo millennio» che lui vuole costruire? Ci sarà un'America, ha detto Clinton alla conclusione del suo discorso, «capace di insegnare ai bambini a leggere, capace di dare un lavoro a chi oggi deve vivere di carità». Un'America in cui «si potrà uscire dalle porte blindate e dalle finestre sprangate per riappropriarci delle strade, finalmente liberate dalla droga e dalla criminalità». Un progetto che appare allo stesso tempo ambiziosissimo, se si tiene conto della realtà quotidiana americana, nonostante le statistiche confortanti degli ultimi tempi, e modesto se enunciato in un discorso che vuole entrare nei libri di scuola del futuro. di essere rieletto? Franco Pantarelli

Luoghi citati: America, Arkansas