«Noi pm, tiranni del processo»

«Noi pm, tiranni del processo» «Noi pm, tiranni del processo» Cardino: prudenti o coraggiosi, tutto dipende da noi portunità. Lo stesso nuovo codice di procedura penale sembra fatto apposta per indurre il pm a innamorarsi delle sue indagini. E' bene, quindi, che chi giudica sia più distante da chi accusa. Questo è l'unico modo per restituire indipendenza e prestigio ad una figura negli ultimi anni appannata dall'onnipresenza del pm e che dovrebbe essere l'autentico simbolo della giustizia: quella del giudice». Questo non farebbe del pm un «super-poliziotto»? «Il pm è già ora molto vicino alla polizia giudiziaria. La divisione dei ruoli vorrebbe che non fosse troppo vicino anche al giudice». Crede davvero che si arriverà alla separazione delle carriere? «No, credo di no. Il clima isterico che inquina ogni dibattito sulla giustizia darebbe vita alla solita guerra di religione fra opposti estremismi. Si griderebbe all'eresia, ci si chiederebbe "che o'è dietro", si direbbe che si vogliono evitare le indagini sui potenti, frenare i magistrati scomodi e via dicendo. Invece si tratterebbe di dare razionalità ad un sistema influenzabile dall'emergenza e dalle preferenze, anche inconsce, del singolo pm». Insomma, dottor Cardino, chi fermerà lo strapotere del pm? «Parlare di strapotere è eccessivo. In democrazia ogni potere necessita di un contrappeso che ne limiti l'espansione. In Italia sembra che l'unico contrappeso sia rappresentato dalle invettive di chi, per interesse personale o strumentalmente, volta a volta si scaglia contro l'operato delle Procure. Giorno dopo giorno abbiamo visto crescere i nostri poteri e sempre meno abbiamo tollerato che qualcuno li mettesse in discussione. Noi pm dobbiamo per primi avere il coraggio e l'onestà intellettuale di ammetterlo». «Non si vuole ammettere che una cosa è indagare e un'altra è giudicare Il nuovo codice sembra fatto apposta per farci innamorare dell'indagine» gini a fatti non denunciati; adotterà mezzi sofisticati come le intercettazioni ambientali o invasivi come le perquisizioni; ascolterà chi ha pagato come concusso e non corruttore, garantendone l'impunità anche di fronte alle sue ammissioni». A quali conclusioni arriveranno rispettivamente i due pm? «Probabilmente il pm coraggioso otterrà migliori risultati del pm prudente. Al termine delle indagini l'uno sarà obbligato ad esercitare l'azione penale e, forse, l'altro no. Ma la scelta fra prudenza e coraggio è rimessa alla discrezionalità del pm e non può non risentire dell'interesse che nutre per l'indagine e forsanche delle sue passioni. L'obbligo di esercitare l'azione penale al termine di indagini indirizzate nell'uno o nell'altro senso è quindi un'illusione». Definirebbe negligente il pm prudente o scorretto il pm coraggioso? «No di certo. Sto parlando sempre di due pm che agiscono nella legalità, ma divisi da un atteggiamento diverso sulle esigenze di indagine e sul rispetto dei diritti dell'individuo. Nessuno potrà mai discutere le loro scelte investigative, salvo clamorose omissioni o evidenti abusi. Tanto meno potrà farlo il capo della Procura visto che oramai ogni sostituto è diventato un ufficio autonomo. E' bene inoltre chiarire che le discrezionalità di cui parlo sono ineliminabili nell'attività investigativa». Nella discrezionalità rientra anche il trattamento dei «collaboratori di giustizia?» «Oggi persone condannate all'ergastolo ma collaboranti con la giusti- zia, possono evitare l'ingresso in carcere. L'azione penale viene esercitata ma è ovvio che la sua portata pratica viene svuotata. La decisione non è del pm, ma il suo parere è autorevolissimo perché ha svolto le indagini ed è il solo che può veramente valutare la collaborazione. Insomma, al di là di ogni ipocrisia verbale l'azione penale viene esercitata solo sulla carta. La rinuncia a punire gravi delitti è un prezzo che lo Stato paga per raggiungere risultati complessivamente positivi nella lotta alla grande criminalità, già lo si è fatto ai tempi del terrorismo, ma comporta una grave lesione all'obbligatorietà dell'azione penale. Anche altri Paesi garantiscono l'immunità dell'imputato collaborante, ma chiamano le cose con il loro nome». Quali altre discrezionalità può permettersi il pm? «E' lui che decide la direzione delle indagini e le imputazioni da muovere. Può accadere, specie di fronte ad un atteggiamento collaborativo dell'indagato in danno dei suoi complici, che anche un pm scrupoloso sia portato a non pigiare sull'acceleratore, accontentandosi di quanto ottenuto. Il che agevolerà il consenso al patteggiamento che premiere l'aiuto dato alle indagini. Tutto ciò discende dalla umana tentazione di trovare la strada più agevole per giungere all'accertamento di un fatto: la confessione, non sempre garanzia di verità. Di fatto il pm è il tiranno dell'oggetto stesso del processo, seleziona le notizie di reato da sottoporre al giudice che ha ben miseri poteri di controllo, dato che vede solo ciò che gli propone l'accusa. Inoltre ormai la prova si forma non al dibattimento ma nelle indagini preliminari, di cui dominus assoluto è il pm che ha cumulato in sé anche le funzioni del vecchio giudice istruttore». E' ingiusta e negativa questa discrezionalità secondo lei? «Non dico questo. Quando si parla di giustizia è bene essere realisti ed abbandonare l'illusione di potere sempre accertare sino in fondo la verità. E' senz'altro il realismo ad ispirare quella che io chiamo la "politica criminale" delle Procure e che le conduce a selezionare le notizie di reato più meritevoli di attenzione o per cui il risultato sembra più a portata di mano. Ma tale selezione non è controllabile, anche se ricondurla a un disegno politico delle Procure è una sciocchezza. Nella giustizia "minore'' vi sono procuratori che hanno diramato circolari interne per indicare ai sostituti a quali notizie di reato dare la precedenza. Nella sostanza per dire su quali tipi di reato indagare e su quali no, per l'impossibilità di gestire l'enorme mole di fascicoli. Condivido tali scelte. Ma perché ci si ostina a non voler dire che questa è una delle tante forme di discrezionalità dell'azione penale?» Insomma il potere del pm ha bisogno di una bella frenata? «Inutile girare intorno al problema. Quando si prende atto della inevitabile discrezionalità dell'azione penale bisogna fare scelte coerenti. Un potere così grande esige controllo e responsabilità. Non può essere il singolo sostituto a decidere come, su chi e su che cosa indagare. Natural¬ mente questo richiederebbe una riforma costituzionale». Vuol dire che l'unica soluzione è porre il pm alle dipendenze dell'esecutivo? «Questa è la soluzione adottata dai Paesi a tradizione accusatoria e non va demonizzata pensando che servirebbe solo ad impedire certe indagini. In un Paese democratico mi sembra improbabile che un ministro ordini a un procuratore di non indagare su qualcuno o qualcosa. Mi rendo conto, però, dei rischi di una tale soluzione. Per evitare allora che l'attività del pm appaia condizionata dalle opportunità politiche, si può pensare ad un organo collegiale di indirizzo e di controllo, autorevole e responsabile solo davanti al Parlamento, che stabilisca in via generale quando e come esercitare l'azione penale. Il tutto, naturalmente, non sulla base di veline o note riservate, ma di direttive trasparenti e controllabili dirette ai procuratori». Allora le funzioni del pm andrebbero separate da quelle del giudice? «Non basterebbe: il sistema dei "separati in casa" sarebbe un inutile ibrido. Andrebbero separate definitivamente le carriere perché troppo diversi sono i ruoli. Sembrerà banale dirlo, ma ancora non si vuole ammettere che una cosa è indagare e un'altra è giudicare; una cosa è accusare una persona di un reato e un'altra è valutare se l'accusa è fondata; quanto sono inevitabili le scelte discrezionali nell'attività dell'inquirente, tanto le decisioni del giudice debbono sottrarsi ad ogni impressione di convenienza o di op¬ Donatella Bartolini «Un potere quasi preoccupante e ora solo autodisciplinabile» Lega, Bossi a Firenze ato» lungo il percorso nante esodo di fedeli e di caduti in disgrazia, Clinton aveva promesso che non avrebbe tentato, come la prima volta, di formare un gabinetto «che somigli all'America», metafora che si tradusse nella rigida applicazione di un «manuale Cencelli» basato non sulle correnti di partito ma sulle «quote»: tanti neri, tante donne, tanti ispanici e via accontentando. Alla fine, tutti hanno potuto constatare che il nuovo governo di Clinton è stato costruito applicando gli stessi identici criteri del primo: così - come un omaggio alla lobby delle donne - è stata interpretata la scelta del nuovo segretario di Stato Madeleine Albright. La sorprendente resurrezione del già trifolato Federico Pena in un altro ministero è stato a sua volta il cedimento a una protesta degli ispanici che era stata sottovalutata. Niente di grave in sé, se non fosse che Clinton si è già ripetuto nel ruolo di colui che promette una cosa, poi oscilla e ne fa un'altra. Anche se pochi sembrano disposti a crederci, la possibilità che ha un Presidente americano di promuovere lo sviluppo economico è quasi pari a zero: un uomo solo può in realtà influenzare l'economia e si tratta del presidente della Federai Reserve. Ma il Presidente, questo sì, ha il potere di fare qualche danno se lancia segnali sbagliati o annuncia riforme che spaventino. Poiché l'economia americana continua a viaggiare su ritmi soddisfacenti da quasi sei anni, molti si augurano comprensibilmente che Clinton non si avventuri in progetti spericolati o demagogici. Date queste premesse, pochi si augurano che nel suo secondo mandato Clinton si sforzi troppo di passare alla storia e molti preferiscono invece che continui nella scia prudente degli ultimi due anni, essendosi ormai manifestata più volte la sua tendenza a seguire il beffardo consiglio di chi diceva: «Quando arrivi a un bivio, prendilo».

Persone citate: Cencelli, Clinton, Donatella Bartolini, Federico Pena, Madeleine Albright

Luoghi citati: Firenze, Italia