«lo colpevole? Mi sarei ucciso»

Le telefonate intercettate: «Gabriele forse sa qualcosa», «Cosa rischia chi tira una pietra?» Le telefonate intercettate: «Gabriele forse sa qualcosa», «Cosa rischia chi tira una pietra?» Lunghi silenzi per Paolo Sandro è stato il più loquace mentre Sergio si è rivelato il più sicuro Per tutti, mai una lacrima Al momento di entrare in cella, il maggiore ha chiesto: «Che ha fatto la Juventus?» La zia: sono criminali è meglio che stiano in prigione «lo colpevole? Mi sarei ucciso» Il giorno più lungo dei tre fratelli DAI A sinistra, Manconi e il cardinale Tonini. Sopra, le sorelle Maria Rosa e Maria Grazia Berdini E, delitto arcaico, e i ragazzi sospettati di esserne gli autori vivono in una famiglia arcaica, come non ce ne sono più. Otto fratelli. Genitori che non riescono a mantenerli. Qualche figlio messo in istituto, perché almeno possa mangiare. Padre che lavora la terra, con furia, con disordine, come i contadini di una volta: s'è fatto male col trattoro, una disgrazia che non capita più a nessuno, e adesso è invalido. Madre che ha un lavoricchio da sottomondo, pulisce le toilettes nella stazione ferroviaria, povera donna. tempo - nella piazza furiosa di Tortona io vedo una società che rischia di impazzire. Quando cercano di aggredire quei ragazzi è come se volessero d'incanto annullare tutta la loro impotenza di genitori. Perché i genitori non ce la fanno più a tenere i ragazzi lontani dalla droga, dalla violenza ottusa, dalla delinquenza. Ormai si mena per il gusto di menare. Questa impotenza, è vero, può diventare un momento di ferocia terribile. Una volta uno se la prendeva con lo Stato, ma ora sanno che lo Stato non c'è più...». minalizzano se chiedi le pena di morte di chi uccide un bambino. Qui criminalizzano chiunque voglia inasprire le pene per i delitti più efferati. Perché questo crimine di lanciare la pietra è peggio di una rapina. Almeno lì - dice Butempo - si capisce il movente. Invece chi uccide per divertimento credo che non abbia diritto di vivere». Ma questo desiderio di morte, di linciaggio, di esecuzioni, non fa paura allo stesso Buontempo? Non gli sembra che una società intera sfugga alle sue responsabilità cercando il capro espiatorio? «Guardi - risponde Buon¬ Francesco Grignetti fi <1 DAL TRIBUNALE ALLA CELLA TORTONA DAL NOSTRO INVIATO Il più grande, Paolo, era anche il più freddo. Lunghi silenzi, monosillabi e qualche sorriso sfottente in faccia agli investigatori. Nessun cadimento. «Tanto mi dovrete rimettere fuori». Quello di mezzo, Sandro, era il più chiacchierone. Interessato, pronto a spiegare, deciso a dimostrare la sua innocenza. A metà della giornata ha guardato gli inquirenti e ha detto: «Non sono stato io, credetemi, perché se l'avessi fatto, mi sarei già ammazzato». Il più piccolo, Sergio, era il più spaesato, ma con il passar delle ore ha ritrovato la sicurezza e non l'ha più perduta, neppure quando la gente all'uscita del palazzo di giustizia gli urlava: «Impiccati». Nessun commento, nessuna lacrima, mai. Senza tremori né rimorsi. Come potrebbero esserlo tre colpevoli senza un'anima o tre ragazzi innocenti. Il giorno più lungo dei fratelli Furlan è finito con una porta di carcere che si chiude, un secondino che spinge dentro Sandro con una manata e un ordine brusco e un agente che gli dice: «Vacci piano!», perché, come tutti, adesso ha dubbi. Le venti ore di interrogatorio di mercoledì non li hanno dissolti. Sono cominciate con l'irruzione in casa Furlan poco dopo mezzanotte e i quattro fratelli stranamente in casa, in piedi, vestiti. Quello che hanno rivelato è uno strano quadro di famiglia, con un quarto fratello che accusa gli altri tre, questi che si difendono dicendo di non frequentarsi anche se dormono nella stessa stanza, mentre, fuori, la madre dice: «Non sono stati loro, li conosco, ma se mi sbaglio li ammazzo io» e la zia (unica ad avere una sentenza): «Sono criminali, meglio che stiano dentro, sono miei nipoti, ma non mi dispiace per loro». Per chi non ha giudizi in tasca non resta che aspettare e farsi raccontare un giorno in procura con la strana famiglia. Con Gabriele Furlan che accusava i tre fratelli e faceva mettere a verbale: «Li ho sentiti parlare del lancio dei sassi e concordare l'alibi». Con Paolo che ascoltava il giudice mentre glielo riferiva e alzava le spalle, poi sorrideva. Con Sandro che, come sempre, cercava di capire: «Ma perché l'ha detto? Non può essere. Noi non usciamo mai insieme, frequentiamo compagnie diverse, tutti noi, ognuno ha la sua». Con Sergio che ripescava dalla memoria un vecchio episodio: lui che aveva un lavoro saltuario, Gabriele che veniva chiamato nella stessa ditta e il titolare che finiva per lasciare a casa Sergio e tenersi, piuttosto, il fratello maggiore. Fratelli, sempre. Amici, mai. «Ma non per questo assassini», ribatteva Sandro, cercando di :pie- innocenti o si sono messi d'accordo alla perfezione. Mai una contraddizione, nessuna esitazione, qualche strafottenza. 0 non hanno niente da nascondere o la scuola della loro vita li ha allenati, perché, in passato, non l'haimo mai fatta franca. Non quando hanno tirato i sassi al treno dei milanisti, non quando hanno incendiato la moto a un conoscente e neppure quando hanno danneggiato una cabina del telefono. Piccoli delinquenti senza furbizia, come tutti quelli che circolano da queste parti. Al bar dove andavano i Furlan, raccontano una storia, per spiegarti che qui non ci sono ragazzi colpevoli capaci di resistere a un interrogatorio di ore: «Una volta, tempo fa, portarono dentro imo di noi, accusandolo di aver rubato un televisore. I carabinieri tentarono il trappolone e gli dissero: "Abbiamo trovato le tue impronte sullo schermo". E lui: "Non mi fregate, ho usato i guanti"». I sassi non conservano impronte, ma i Furlan non sono caduti in nessuno dei trappoloni preparati per loro, salvo quello, in cui sono stati spinti a forza, di uscire dal palazzo di giustizia attraverso la porta principale, con la folla schierata e urlante, come avrebbe potuto accadere soltanto a tre assassini ricondotti in carcere dopo una sentenza definitiva. Tra di loro, non si sono più visti. Ognuno nella sua jeila, senza le immagini della Madonna, le donne nude e gli striscioni ultra. Mentre la porta si chiudeva alle sue spalle Paolo ha domandato: «Cos'ha fatto la Juve?». Un agente ha guardato il presunto colpevole e non gli ha risposto, più- sapendo. L'altro ha guardato il presunto innocente e detto: «Vai, ha stravinto». gare che lui quella sera era stato a casa, quindi al pub. Poi si preoccupava, per la sua ragazza, per il portafoglio dimenticato sul letto con dentro cinquecentomila lire da dare al fratello di lei per estinguere un debito, per tutto quello di brutto che avrebbero detto di lui, «un innocente, invece». Lo diceva con parole sue, come i fratelli (Paolo, più con i silenzi). Il procuratore, Aldo Cuva, li guardava e cercava di comprenderli, non solo di metterli alle strette. Capirli, anzitutto, capire il loro mondo, la loro famiglia, i clan al suo interno, le tensioni. Una parola. «E' un contesto sociale, pedagogico e antropologico molto particolare», dice adesso, intendendo che una famiglia cosi non l'aveva mai vista. ((Appartengono alla tipologia dei giovani moderni», aggiunge, lasciando intuire che c'era un fosso tra loro e lui. Due linguaggi e due mondi. Lui con il suo codice penale. Loro con un altro codice da rispettare. 0 sono Gabriele Romagn oe e Joseph Cotten oli r