Stet Bertinotti «sgambetta» il governo di Igor Man

Il trasferimento dall'Iri al Tesoro bocciato per soli quattro voti. Polo e Lega votano contro Il trasferimento dall'Iri al Tesoro bocciato per soli quattro voti. Polo e Lega votano contro Stet, Bertinotti «sgambetta» il governo // decreto respinto alla Camera. Rifondazione si astiene ROMA. Altolà. La Stet non deve più traslocare. L'assemblea della Camera ha respinto il decreto legge che prevede il trasferimento della ricca finanziaria delle telecomunicazioni dall'In al controllo diretto del ministero del Tesoro. E' stata determinante per la bocciatura l'astensione di Rifondazione comunista. Il governo si è trovato in minoranza per appena quattro voti: il decreto ha raccolto 230 sì da parte dell'Ulivo e 234 no espressi dal Polo e dalla Lega; 26 gli astenuti, tutti del partito di Fausto Bertinotti. E' un voto che scombussola i piani del governo di Romano Prodi. L'Iri guarda sgomento la situazione creatasi: vendendo la Stet al Tesoro alleggerisce i forti debiti. Il governo fa una brutta figura con l'Unione europea: l'operazione Stet è stata concordata a novembre dal ministro del Tesoro Carlo Azeglio Ciampi con il commissario alla concorrenza Karel Van Miert per rimediare ai guai dell'Iri. Ciampi comunque minimizza le conseguenze della bocciatura del decreto: con una nota assicura che la bocciatura «non rimette in discussione il trasferimento della Stet» fra l'altro «già avvenuto». Del resto «l'acquisto da parte del Tesoro» è consentito dalla legge finanziaria. Né cambia nulla per la prevista fusione tra Stet e Telecom. A parte gli aspetti tecnici, ci sono i riflessi politici della decisione di Bertinotti di portare alle estreme conseguenze la sua opposizione alla privatizzazione della Stet, favorita anche se non avviata concretamente dal decreto. La resistenza di Rifondazione ha già fatto slittare il collocamento delle azioni della finanziaria sul mercato, obiettivo fondamentale di Prodi. L'opposizione può ora rinfacciare a Prodi di essere condizionato da Bertinotti e di guidare un governo che su alcune «questioni decisive non può contare sulla sua maggioranza» come sostiene Rocco Buttiglione, segretario del cdu. Incassata la sconfitta, poco dopo le venti, Prodi ha lasciato in silenzio la Camera. Invece il segretario del pds Massimo D'Alema si è mostrato preoccupato: «Un danno grave. Spero che il governo ora rimedi. Un danno grave soprattutto per l'Ili. D'altra parte se Rifondazione ha deciso per l'astensione... siamo in un Paese libero». GLI SCHIERAMENTI AL SENATO QUORUM 2/3=217 m màÈàmm IL «DUELLO» DEI CANDIDATI 100 Sinistra Democratica 47 Forza Italia 31 11 PPI -UD Rifondazione 25 CCD-CDU 11 Rin. Italiano e Socialisti OROMA UATTRO chiacchiere per strada alle 11 del mattino sui pesci che offre il mare di Puglia tra due personaggi attenti ai doppi sensi e alle furbizie come Massimo D'Alema, segretario del pds e favorito per la presidenza della commissione Bicamerale, e Pinuccio Tatarella, braccio destro di Gianfranco Fini, cioè dell'uomo più diffidente verso la candidatura del segretario del pds. In quel colloquio occasionale, i due arrivano al sodo con il numero uno di Botteghe Oscure che brucia sul tempo il suo interlocutore per dire: «Se pensate che la mia candidatura sia un ostacolo 10 mi levo. Non faccio problemi». Altri ragionamenti, altre disquisizioni noi pomeriggio nella stanza dei bottoni del Polo, cioè nella casa di Silvio Berlusconi in via del Plebiscito. Il cavaliere ascolta le argomentazioni con cui Clemente Mastella e Pierferdinando Casini gli raccomandano di appoggiare la candidatura del segretario del pds alla Bicamerale. «Guarda Silvio - osserva Mastella - che se non ci va D'Alema ci devi andare tu perché qualunque altro, da Urbani a Fisichella, si trasformerebbe subito in un altro Dini o in un altro Scognamiglio, cioè giocherebbe subito la partita con gli altri. Ma a te conviene davvero fare il presidente della Bicamerale?». Inutile dire che il consigliereombra di Berlusconi, Gianni Letta, è d'accordo: «Sì - ammette - D'Alema sarebbe la soluzione migliore». Ma il cavaliere è prudente, sa che Fini non accetterebbe volentieri questa soluzione e preferirebbe non tirare troppo la corda con un alleato ferito. Ancora la «Bicamerale» non è nata e già la questione della presidenza c all'ordine del giorno. La cosa non deve meravigliare: 11 nome, o meglio l'autorevolezza, del personaggio che guiderà l'organismo è la cartina di tornasole sul grado di serietà del tentativo di riformare le istituzioni di questo Paese. Un conto, infatti, è avere una commissione presieduta da D'Alema oppure da Berlusconi. Tutt'altra cosa, invece, sarebbero con tutto il rispetto per le persone, presidenze come quelle di Cesare Salvi, di Domenico Fisichella o di Giuliano Urbani. Non per nulla anche un personaggio come Ciriaco De Mita, che non ha certo simpatie verso il cavaliere, arriva a dire: «Qui c'è bisogno di una presidenza autorevole sul piano politico per cui ci sono solo due soluzioni: o il segretario del Pds, o il leader di Forza Italia». Ma visto che in Italia la cosa più semplice diventa difficile, anche su questo argomento si è aperta una partita complicata. Addirittura c'è chi, come il professore di Forza Italia Giorgio Rebuffa, ha tirato fuori l'idea di Per il governo è la seconda sconfitta in aula alla Camera dopo la bocciatura del decreto sugli sfratti presentato dall'ex ministro dei Lavori pubblici Antonio Di Pietro. L'affare Stet riapre il problema dei rapporti con Rifondazione. Bertinotti rivendica la coerenza del suo partito che si era astenuto anche in commissione e ora si toglie il gusto di ironizzare. Sostiene che il governo avrebbe potuto far marcia indietro sul decreto rinunciando alla «prova di forza del voto» e che la maggioranza «doveva attrezzarsi diversamente». L'Ulivo doveva cioè garantire una maggiore presenza dei suoi deputati in aula. «Alle otto della sera è facile che manchino decine di deputati» osserva il ministro della Difesa Nino Andreatta. E il suo collega delle Poste, Antonio Maccanico, parla di «distrazione». Ma è una distrazione che consente al Polo di cantare vittoria. «Abbiamo bloccato una falsa privatizzazione» proclama Beppe Pisanu, capogruppo di Forza Italia. E' stato bocciato un decreto «che il Polo ha contestato per la sua natura statalista», dichiara Maurizio Gasparri, coordinatore di Alleanza nazio¬ nale. Incalza Carlo Giovanardi, capogruppo del ccd: «Il governo ha una maggioranza solo se si appiattisce sulle posizioni» di Rifondnzione. Il decreto doveva essere convertito entro martedì 21 e doveva essere esaminato nei prossimi giorni dal Senato. Per Ciampi comunque il trasferimento della Stet non può più essere revocato. L'Iri ha già incassato dal Tesoro un acconto di 3 mila miliardi sui 15 mila che dovranno essere pagati per il passaggio di proprietà. L'operazione è stata concepita per rimediare alla mancata privatizzazione della Stet che avrebbe raddrizzato il bilancio Iri rispettando un accordo europeo del 1993. Ottenendo una proroga fino a giugno per la riduzione dei debiti dell'Iri, Ciampi ha stabilito con Van Miert (oltre alle decisioni sulla Stet) la rapida privatizzazione da parte dell'Iri di Seat, Autostrade, Finmare e della partecipazione nella Banca di Roma. Ora ambienti comunitari ricordano che l'Italia non può sottrarsi al passaggio della Stet al Tesoro e alla fusione con la Telecom. Roberto Ippolito a i o e o l i o i e è o a ] o s a 7 MONTECITORIO: UNA SAUNA ROMA. Un caldo soffocante ieri ha tenuto molti deputati lontani dall'aula parlamentare di Montecitorio. Il termostato fisso su una temperatura di venticinque gradi ha anche provocato un consumo record d'acqua o di spremute alla buvette. Tutta colpa del filosofo di Forza Italia, Lucio Colletti, che il giorno prima si era seduto sul suo scranno con il cappoto, la sciarpa e il cappello motivando così il suo abbigliamento: «Io soffro di cervicale e qui fa troppo freddo». Né le spiegazioni del presidente della Camera, Luciano Violante, hanno convinto il professore a liberarsi di qualche indumento. «L'unica cosa che è riuscito a dirmi il presidente - racconta Colletti - è che la temperatura è regolata da un congegno elettronico che nessuno è capace di far funzionare». Così niente da fare: finché la Camera non troverà un tecnico all'altezza i deputati faranno la sauna in aula. 14 Verdi 27 lega 44 Alleanza Nazionale 15 Gruppo misto lau.. min.] DISACCORDO CHE UNISCE guerra dei Sei Giorni raggirandolo con la menzogna delle truppe egiziane «alle porte di Tel Aviv», è stato coscienziosamente odialo da Hussein (e non a tortol. Ma l'odio più tenace, celato da un eterno sorriso inespressivo, e quello che il re porta ad Arafat. Anche in questo caso non a torto. Nel suo infantilismo politico l'Olp, nel 1970, dopo aver creato in fatto uno Stato (palestinese) nello Stato (di Giordania) si apprestava a dar la spallata al traballante trono hascemita ma Hussein bruciò sul tempo i fedayn e fu l'infame Settembre Nero: pur di sottrarsi alla furia vendicativa della Legione beduina non pochi fedayn ripararono in Israele. Per tutti questi motivi Hussein ha accettato, invero sportivamente, di diventare il padre del compromesso che consente oggi, un po' a tutti nel mondo, di parlare di «successo della ragione», di «marcia verso la pace». Salva la classe di Hussein, va detto tuttavia ch'egli non ha accettato quel ruolo che s'è detto per vanita o per spirito di servizio. Lo ha fatto perché non è che le cose gli vadano poi così bene. Regna su di un Paese difficile la cui popolazione è in stragrandi» maggioranza palestinese; deve tenere a bada i fratelli musulmani, fare i conti con Saddam e, ultimo ma non meno importante, rendersi utile agli Stati Uniti. Accettando di figurare come l'uomo della dcrnier chance, suggeritore di un compromesso .agionevole e risolutore, Hussein ha, in ogni caso, reso un grosso favore un po' a tutti. Ha salvato la faccia a Netanyahu che potrà sempre dire, e dimostrare, d'aver rimodellato l'accordo di Oslo a esclusivo vantaggio di Israele che, altro elemento importante davvero, ha guadagnato ulteriore tempo facendo slittare al 1998 «impegni» che in buona parte avrebbe dovuto saldare l'anno scorso. Ha salvato la faccia al vecchio Abu Animar che avendo bruciato oramai da tempo i suoi poveri vascelli, alle spalle ha il vuoto e in prospettiva infinite incognite, ineludibili tradimenti. Arafat, infatti, potrà dire che «sia come sia» gli israeliani se ne vanno da Hebron. E non è poco da come s'erano messe le cose. Ho aperto questo commento parlando di disaccordo parafato nel segno d'un accordo di compromesso. Debbo aggiungere che l'enfatizzato accordo (sul disaccordo) pone un problema pesante: per l'Olp Hebron è il punto di partenza verso una trattativa seria che dovrebbe portare allo Stato palestinese; per Israele Hebron chiude, nei fatti, la partita. Almeno per ora. Di pili: l'accordo di Erez è accompagnato da un documento americano che vuole rassicurare le due parti sulle rispettive «buone intenzioni». Non credo che due leaders che diffidano visceralmente l'uno dell'altro si sentiranno rassicurati da codesto documento. Il fatto è, come osserva «Le Monde», non pochi «punti d'accordo» citati dal documento rinviano a futuri negoziati su difficili contenziosi sui quali, sulla carta, ci si era accordati in precedenti fasi del negoziato, e che non sono stati mai applicati. Due soli esempi: la liberazione dei cinquemila palestinesi costretti nelle galere israeliane; la revisione della Carta dell'Olp là dove si parla deila distrazione di Israele. Non siamo alla vigilia di una nuova guerra, il processo negoziale va avanti, ancorché a passi da fenilica, è, questo, il primo accordo firmato da Israele con Arafat: tutto ciò non e certo da buttar via. Ma sarebbe incauto parlare di «passo decisivo», scatenare la fanfara del trionfalismo. «Benyamin Netanyahu ha accettato un accordo che avrebbe voluto evitare. Yasser Arafat ha fatto lo stesso con un partner che avrebbe preferito non conoscere». Così la radio israeliana. Un commento realistico al quale, vuoi o non vuoi, tocca associarsi. Epperò nel '31 quel mezzo Cavour e mezzo Garibaldi che fu Ben Gurion disse qualcosa che conviene ricordare: «Chi pensasse a un sionismo che non fosse giusto con gli arabi di Palestina non soltanto dimostrerebbe di essere msensibile all'idea di giustizia ma mancherebbe, altresì, del senso d'una politica realistica». Igor Man