La nave degli uomini invisibili di Gabriele Romagnoli

La nave degli uomini invisibili La nave degli uomini invisibili ERANO uomini invisibili. Si chiamavano quasi tutti Mohammad. Venivano dal Punjab. Vivevano in case di fango ai bordi della Grand Trunk Road, la srrada che va da Kabul a Calcutta. I camion e i pulmini diretti a Labore alzavano polveri; sulle loro facce e correvano via. Se li trovavano sulla carreggiata, li investivano, poi proseguivano senza fermarsi. «Cosa è stato/», domandava qualcuno. «Nessuno», rispondeva il conducente, guardando macchie e nuvole nel retrovisore. Sono uomini invisibili. Una sera di dicembre hanno dato tutti i dollari che avevano a un uomo che, di loro, non si ricorda più. Hanno preso un aereo per il Cairo che nessuna torre di controllo ha fatto decollare e che, nell'aria, scie non lasciava. Sono atterrati al Cairo. Alla dogana, nessuno ha chiesto nulla e loro nulla hanno risposto. Hanno raggiunto Alessandria d'Egitto su un treno che partiva da un binario morto e li ha condotti al porto. La naveche li aspettava non aveva nome. Mentre salivano, senza che nessuno li salutasse, un vecchio mozzo, calato dal ponte, scrisse sulla fiancata, a lettere bianche su fondo bianco, la parola «Fricndship» (amicizia) e rise. Di un riso brutto, che arrivò nelle stive dove loro si stavano stringendo. Troppi, per quello spazio. Se qualcuno li avesse visti, avrebbe capito, ma nessuno scese a guardarli. Il capitano libanese ingollava alcol. Issò la bandiera di Panama e pensò quando a Londra il comando di questa galera gli sembrò un affare, perché un comandante, per quanto giovane, dovrebbe stare in mare. E sul mare andò, ch'era quasi Natale. Sul fondo della stiva, voci nel buio: «Mi chiamo Mohammad», «Io, Mohammad». La «Friendship» cambiò due volte nome o l'equipaggio e la zavorra cambiarono due volte nave. Cosa cambia? Avanzarono, verso terra. Lm capitano libanese con la pistola nella cinta, mezza dozzina di marinai greci e un carico non registrato. Arrivarono nel canale di Sicilia la notte di Natale. Il comandante, completamente ubriaco, guardò fuori, nella not| te, e vide la tomba, grande come il rmire. Profetizzò: -Il nostro porto d'attracco darà segno di sé». Puntò il binocolo e mentì: «Eccole, laggiù: le luci dell'Italia». Erano stelle cadenti e basta. Affidò il suo carico alle false comete. Lo trasbordò su una nave troppo piccola per trasportarli. Se li avessero contati, se li avessero visti. La nave incontrò il suo destino alle tre della notte. Quale, lo sa il mare. La nave non c'è più. Il suo carico, nemmeno. Sull'orizzonte ottico non c'è, si dovrà pur vedere. Invece, non lo ha visto nessuno. Non le capitanerie di porto italiane, maltesi o greche; non le motovedette che hanno pattugliato la zona; non i media che pur si nutrono di disgrazie (eccezione, «il manifesto»). Sarebbero stati uomini invisibili. Se non avessero fatto naufragio e fossero tra noi, in Europa, chi si accorgerebbe di 283 Mohammad? Forse ci sono. Forse non sono mai partiti. Ma se sono morti, meritano una storia e una verità. Gabriele Romagnoli