«Piuttosto che licenziare, mi uccido» di Sergio Romano

Titolare di 3 stabilimenti senza commesse, non riusciva più a pagare gli stipendi Titolare di 3 stabilimenti senza commesse, non riusciva più a pagare gli stipendi «Piuttosto che licenziare, mi uccido» Napoli: si spara imprenditore in crisi finanziaria NAPOLI. Si è ucciso perché gli affari andavano male e lui non avrebbe mai saputo trovare il coraggio e le parole per dire ai suoi operai che dovevano trovarsi un altro lavoro. Francesco Perillo, imprenditore di 36 anni, è stato trovato morto sul letto della sua abitazione a San Giuseppe Vesuviano. Prima di spararsi un colpo di pistola alla tempia, ha scritto due biglietti: il primo alla fidanzata, Alessandra Catalano, che avrebbe dovuto sposare il 15 giugno prossimo, l'altro alla madre, Raffaella Sabatino e ai fratelli. Poche righe per testimoniare l'amore per i suoi cari, invocare perdono e spiegare che aveva deciso di farla finita per «non essere riuscito - ha scritto - a portare a termine le nostre cose». Le sue tre aziende - nei Comuni di San Giuseppe Vesuviano, San Vitaliano e Casalnuovo - erano infatti da qualche tempo finite nella morsa di una crisi che appari¬ va irreversibile. Specializzate nella trasformazione di materiale ferroso, le fabbriche erano ormai sull'orlo della chiusura per la drastica diminuzione delle commesse. Solo una settimana fa l'imprenditore aveva incontrato i 15 operai dello stabilimento di San Giuseppe e aveva accennato all'ipotesi di licenziamenti: «Se le cose continuano così - aveva detto sarò costretto a privarmi di alcuni di voi. Sapete, le commesse non arrivano più e questo potrà provocare un'inevitabile riduzione degli organici». E delle difficoltà aveva accennato negli ultimi tempi anche alla madre: parole di sconforto che non lasciavano tuttavia presagire un epilogo così tragico. Anche perché Francesco Perillo aveva dimostrato sempre di sapere affrontare con determinazione le vicissitudini della vita. Come quando riuscì a liberarsi dalle catene che gli stringevano i polsi in un covo di banditi a Roma. I se¬ questratori lo avevano rapito a Casalnuovo, il 6 aprile 1984, tenendolo prigioniero nella capitale in attesa del pagamento del riscatto. Per sette mesi, Perillo fu nelle mani della banda, fino al giorno in cui, approfittando del momentaneo allontanamento del suo carceriere, riuscì a fuggire e ad avvertire la polizia. I rapitori furono tutti arrestati e condannati. Da quella brutta esperienza, l'imprenditore aveva saputo riprendersi, dedicandosi con ancora maggiore impegno alla gestione delle tre aziende. L'altra sera, Perillo, dopo una giornata trascorsa in fabbrica, è tornato nella sua abitazione in via Scudiero a San Giuseppe Vesuviano. Qualche ora dopo si è ammazzato con un colpo di pistola, un'arma legalmente detenuta che aveva deciso di acquistare dopo il suo sequestro. Enzo La Penna un percorso legittimo, ma tortuoso e di esito incerto. Vorrebbe provocare un referendum sulla legge per l'istituzione della Bicamerale e trasformare il referendum in una sorta di pronunciamento popolare per rafforzare il potere costituente della Commissione. Credo che il movimento suscitato da Segni e Cossiga lavori per il futuro e possa vincere la sua battaglia soltanto se la Commissione bicamerale (la terza dalla prima metà degli Anni Ottanta) non sarà all'altezza del suo compito. Se il partito della Costituente riuscisse a sabotare la Commissione bicamerale oggi, non avremmo alla fine né la Bicamerale né la Costituente. Avremmo soltanto l'art. 138, vale a dire lo strumento preferito da coloro che non vogliono cambiare niente. Ma ecco che Gianfranco Fini, leader di Alleanza Nazionale, decide di iscriversi al «partito della Costituente". Lo ha fatto probabilmente per una combinazione di ragioni buone e cattive. La ragione buona è il timore che la Bicamerale diventi un mercato di favori reciproci in cui Berlusconi e D'Alema si scambieranno un po' di televisione contro un po' di bipolarismo, e spingeranno Alleanza Nazionale fuori del gioco. La ragione cattiva è in quella sorta di demone massimalista che s'impadronisce di Gianfranco Fini ogniqualvolta intravede la possibilità di raddoppiare, con una scommessa, le fortune del partito. E' questa per grandi linee la situazione che Berlusconi trova al suo ritorno in Italia. Se vuole essere il leader dell'opposizione deve, nel suo interesse e in quello del Paese, ricucirne gli strappi. Un'opposizione divisa e litigiosa non serve a nessuno, nemmeno, paradossalmente, a Massimo D'Alema. Ma per ottenere questo risultato non può limitarsi a predicare l'unità del Polo e a ricordare che l'Assemblea Costituente, per il momento, non è all'ordine del giorno. Deve dimostrare a Fini e agli altri alleati che non si servirà della Bicamerale per risolvere i propri problemi aziendali. Mi spiego meglio. Gli interessi dell'im¬ prenditore Silvio Berlusconi sono legittimi e la sua televisione è utile, in ultima analisi, alla democrazia italiana. Chi ha assistito alla lunga trasmissione di Rai 3, giovedì sera, e all'applauso plebiscitario di un'assemblea bolognese, orchestrato dal conduttore a favore del governo Prodi, dovrebbe avere capito che se abbiamo un po' di «par condicio» lo dobbiamo, purtroppo, anche alle televisioni del cavaliere. Ma il leader del Polo non può negoziare la riforma della Costituzione se è al tempo stesso portatore di interessi privati ed esposto ai ricatti della controparte. Spetta a lui convincere i suoi compagni di coalizione che il negoziato sarà trasparente e libero da contaminazioni improprie. Lo faccia, e avrà il diritto di dirigere il Polo. In caso contrario, è meglio che resti al Messico, ottimo indirizzo per dirigere un gruppo multinazionale, pessimo per collaborare alla riforma del sistema democratico italiano. FRA PICCONE E TIVÙ' quale i partiti baratteranno un po' di riforme istituzionali contro provvedimenti eterogenei, destinati a compiacere i loro apparati e le loro clientele. Segni, Cossiga e altri uomini politici, fra cui Martinazzoli, credono con ragione che la riforma della Costituzione (una necessità a cui il Paese non può sottrarsi, se vuole restare in Europa) richieda un clima «costituente-» e una grande Assemblea eletta dagli italiani con il preciso mandato di riformare l'architettura dello Stato. E' una posizione intelligente e rispettabile che ha il me| rito di prospettare al Paese, con forza, i suoi reali problemi. Ma non offre, per il momento, una prospettiva realistica. Il «partito della Costituente» non è abbastanza forte per imporre la sua soluzione. Lo dimostra, tra l'altro, il fatto che Cossiga speri di raggiungere lo scopo attraverso Sergio Romano e