A Seul, tra i dannati del miracolo

A Seul/ tra i dannati del miracolo A Seul/ tra i dannati del miracolo Salari come in Occidente, ora la paura è il licenziamento UNA CRISI A ORIENTE SEUL miche con cui si manifesta questa fase di crisi del «modello coreano», se mai è esistito come tale. Dopo vent'anni di crescita economica ininterrotta, il Paese ha avuto anche nel '96 uno sviluppo del 6,8%, impensabile in economie mature, ma inferiore al 9,5 dell'anno precedente. Questo calo che altrove sarebbe assorbito senza eccessivi traumi, sta avendo effetti devastanti, rivelando la vulnerabilità del sistema. Il Paese si è industrializzato nello spazio di meno di due generazioni, bruciando tappe dello sviluppo e della storia, concentrandosi su grandi imprese, favorite dal credito e da cospicue esenzioni fiscali, e su alcuni settori strategici, selvaggiamente orientati all'export: elettronica, petrolchimica, siderurgia, cantieristica, automobile. Le scommesse sono riuscite in modo spettacolare. Nell'87 circolavano un milione di autoveicoli; oggi sono nove milioni; l'export era di 50 miliardi di dollari, saliti a 123 nel'95. Ma proprio il successo nell'esportazione in settori specifici, cui non è corrisposta una pari salita nei consumi interni malgrado la straordinaria crescita del tenore di vita, ren- de il sistema prigioniero di se stesso, dipendente dall'estero per la ristretta base di produzione: è stato calcolato per esempio che una variazione di cinque dollari nel prezzo dei semiconduttori, di cui la Corea è forte produttore, comporta per il Paese una perdita di un miliardo di dollari. Creato dal gigantismo di una decina di grandi gruppi, il sistema ne è ora bloccato, impacciato nelle difficoltà della diversificazione. Fino a una decina d'anni fa, esso si è avvantaggiato di bassi salari, i quali sono però poi aumentati, anche del 15 per cento annuo in termi¬ ni reali, portandosi in linea con quelli di Paesi a maggior sviluppo, e comunque in misura superiore, secondo gli osservatori, all'aumento di produttività. Le aziende hanno comprato la pace sociale cedendo sulla busta paga a rivendicazioni per la redistribuzione della ricchezza nazionale accumulata. Ma ora si scopre che il sistema non è più competitivo. E si identifica solo nel salario e nella forza-lavoro la causa della crisi, tacendo sugli altri fattori: e cioè scarsa capacità innovativa; un dirigismo economico che favorisce i grandi gruppi a scapito di imprese medie e piccole che faticano ad avviarsi; tassi di interesse superiori al 12 per cento, contro il 2,5 giapponese (tasso ufficiale di sconto 0,5 per cento, il più basso da quando è stato inventato il denaro) o il 5-6 di Taiwan; barriere al credito di istituzioni straniere a operatori nazionali, limiti a investitori stranieri, che non possono avere oltre 0 20 per cento di un'impresa; alti costi dei terreni industriali; massiccia presenza statale in vari settori. «Agli aumenti dei salari a livello di economie mature - osserva Cristoforo Rocco, di¬ DAL NOSTRO INVIATO Un tecnico della Hyundai che si dà fuoco in piazza, in mezzo a ventimila lavoratori in sciopero, diventa improvvisamente, nella crisi sociale coreana, qualcosa di più dell'autosacrificio così sedimentato nella cultura orientale. Il Paese l'ha visto ieri sera in tv, e nella emozione della visione collettiva, non nell'immaginario, diventa la rappresentazione di un «modello» che si estingue. Sulla piazza di Ulsan, 300 chilometri da Seul, dove è avvenuto l'autodafé, e sullo schermo, cioè in tutte le case, le fiamme hanno attaccato non solo le carni del fino a ieri oscuro Chung Jae-Sung, ma anche la sostanza di un mito collettivo circolante non solo qui, ma forse ancor di più all'estero: quello, appunto, del «modello coreano», in termini economici e sociali. Chung hanno fatto in tempo a salvarlo, anche se resta grave. Ma il modello è a pezzi. Alle ustioni si aggiungono le sferzate di una misura arcaica, una parola che sembrava confinata ai libri di storia sociale: serrata. Qualche ora dopo, infatti, la Hyundai ha annunciato di chiudere gli stabilimenti in risposta agli scioperi articolati in atto. E' la prima volta che ciò accade. A farlo è quella stessa Hyundai il cui fondatore, l'ottantenne Chong Chu Yong (tuttora gran patriarca), nel 1992 si era presentato alle elezioni per il presidente della repubblica con promesse di riforme e rinnovamento. Per le strade di Seul e delle altre grandi città sono riapparsi imponenti schieramenti di polizia come negli ultimi mesi del regime militare neU'87, all'alba della democrazia. Non è in corso una mera lotta sindacale, ma qualcosa di più. Gli eventi di ieri sono solo un segnale dell'asprezza dello scontro in atto e della posta in gioco. In esso confluiscono tensioni politiche, sociali ed econo- rettore della filiale della Schrodcrs, la banca britannica molto attiva sul mercato di Seul - non corrispondono pari strutture economiche e politiche. E ciò pesa su tutto». Il «modello coreano» si rivola incapace di innovazione tecnologica, con calo di produttività ed efficienza malgrado l'alto livello della forza-lavoro. Ha realizzato impianti giganteschi per economie di scala con grandi volumi produttivi per aggredire il mondo, ma lo ha fatto con crescente dipendenza dall'estero, sia con royalties sia con acquisto di innovazioni. E' leader nella produzione di chip di memoria per computer, ma nel segmento di bassa tecnologia del mercato dei semiconduttori. Secondo una ricerca del professor Thomas Hon Gsoon Han, autore con Giacomo Corna Pellegrini dell'Università di Milano di uno studio su democrazia e sviluppo in Corea, l'importazione di tecnologia è stata crescente: un miliardo e 200 milioni di dollari fra l'82 e l'86, quasi quattro miliardi e mezzo fra l'87 e il '91, nove miliardi fra il '92 e il '94.1 fondi destinati a ricerca e sviluppo sono molto inferiori a quelli di tutti i Paesi sviluppati: appona un dodicesimo di quelli del Giappone nel '93, un diciottesimo di quelli americani. Il Paese è stato ammesso mesi fa nell'Ocse, l'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo, club di ricchi e benestanti, ma i suoi problemi stanno ora venendo al pettine. Sotto l'apparenza florida e vibrante, Seul è pervasa da tensioni segrete, da insicurezze non soltanto per il fatto che il fronte con il Nord, con cui è ancora tecnicamente in stato di guerra, è a soli 30 chilometri. Il modo furtivo con cui è stata fatta la legge sul lavoro rivela la fragilità di una democrazia di pochi anni di vita, e aspirazioni decisioniste, se non autoritarie, malgrado Kim Young Sam sia il primo presidente non militare. I soli deputati di maggioranza furono convocati riservatamente per il 26 dicembre, impegnati a discrezione e segretezza, e porta1, i all'alba con tre bus in Parlamento. Essi hanno varato anche un'altra legge che restituisce ampi poteri ai servizi segreti per indagare su eventuali simpatizzanti per il Nord: una paranoia per chi, come il Sud, dovrebbe essere fiero dei suoi successi economici e sociali, di fron- te al fallimentare avversario. La nuova legge sul lavoro prevede i licenziamenti e una configurazione del monte-ore di lavoro, che pur restando 44 setthnanali saranno fissate dalle imprese a seconda delle necessità. La previsione dei licenziamenti, senza ammortizzatori sociali, è uno choc in un sistema in cui vige l'impiego a vita: e lascia intuire ristrutturazioni imponenti per risparmi sulla manodopera. La nuova struttura del monte-ore comporta la scomparsa o limitazione degli straordinari, che qui sono importante voce del salario. E' il Paese in cui si lavora di più al mondo, più che in Giappone: 207 ore al mese nel '95, un po' meno delle 224 nel '70. Benché orientata sull'export, la Corea ha chiuso il '96 con un deficit commerciale di oltre venti miliardi di dollari, il più alto al mondo dopo quello degli Stati Uniti. La crescita delle esportazioni è crollata dal 34 per cento del '95 al 6,3 del '96; le importazioni sono invece salite del 10 per cento. Il tasso di risparmio resta alto, per l'esiguità di previdenze sociali, ma cala. I prezzi degli immobili sono a livello di Tokyo. Fino all'anno scorso, la Corea era stata favorita dal grande apprezzamento dello yen, che aveva fatto ripiegare molti mercati stranieri su Seul per elettronica di consumo. Ma il forte ribasso dello yen in atto da mesi ha riportato in corsa i giapponesi, mentre scoppiava la crisi dei semiconduttori: essi costituiscono il 20 per cento dell'export, ma il loro prezzo è crollato nel '96 dell'80 per cento. Su questo sfondo diventa più intelligibile lo scontro sociale in atto. Una forza lavoro tra le piti preparate e qualificate del mondo trema per la sua sicurezza. Un sistema che su di essa si è fondato vuole sacrificarla per cercare di rilanciarsi.

Persone citate: Chong Chu Yong, Chung Jae-sung, Cristoforo Rocco, Giacomo Corna Pellegrini, Kim Young Sam, Salari, Thomas Hon Gsoon Han

Luoghi citati: Corea, Giappone, Milano, Stati Uniti, Taiwan, Tokyo