LA RIVINCITA DELLA RETORICA di Giuseppe Mayda

Esaltata da Aristotele, maledetta dai romantici, diffamata sino a ieri l'arte del parlare è rivalutata da questa fine secolo Esaltata da Aristotele, maledetta dai romantici, diffamata sino a ieri l'arte del parlare è rivalutata da questa fine secolo Pennacini: «Forma la capacità di organizzare il pensiero e raccontare» La rivincita della RETORICA Fabris: «E' il vero linguaggio di oggi, applichiamola alla comunicazione visiva» Stampa, condensando una affermazione di Maurizio Viroli. E la retorica, maledetta o esaltata, si è ripresa la scena. Per secoli filosofi e maestri di scrittura avevano insegnato che era uno strumento necessario alla esposizione del pensiero. Da più di cent'anni ci stanno dicendo che bisogna tenersene lontani, perché non corrompa la verità. La stessa parola, che era stata portata nell'alto dei cieli da Aristotele, è precipitata negli inferni con il romanticismo, il crocianesimo, il neorealismo e tutti i loro vade retro. Retorica diventa una parola turpe, appestante, diffamata. Subisce la stessa sorte di altri termini, come machiavellico, boccaccesco, gesuitico, degradati da modello a stereotipo, e stereotipo falso. Da ieri mattina, sorpresa, l'orizzonte cambia. Per la verità era già cambiato da tempo, ma nessuno osava confessarlo in pubblico. Il primo aggettivo da applicare a retorica - scopriamo con sollievo - non è «bolsa», come fa Montanelli, ma «persuasiva», come argomenta Viroli. «La retorica è l'arte di usare le parole per persuadere e commuovere - osserva lo studioso di Princeton, autore del saggio Per amore della patria -. Non sostituisce né la verità, né la saggezza, ma dà all'una e all'altra la forza di penetrare a fondo nelle menti e nei cuori». Possiamo usare la parola «retorica», allora, senza paura di anatemi? Ma certo che possiamo, anzi dobbiamo, per vivere nel nostro tempo. «La retorica andrebbe riportata alla sua verginità essenziale, non decorativa - ci dice il linguista Raffaele Simone, dell'Università di Roma -; dovrebbe essere insegnata nelle scuole, nelle Accademie, in tutti i luoghi dove la parola viene usata come strumento di interazione. E' una risorsa straordinaria». Simone, studioso del linguaggio nell'educazione e nello sviluppo, si definisce «un grande sostenitore della retorica»: perché ci aiuta a capire, perché ci porta alla logica, l'altra fondamentale disciplina oggi ignorata. «Della retorica abbiamo bisogno tutti». Per parlare in pubblico? «Per qualsiasi necessità. Anche per chiedere lo sconto in un negozio. Ci risparmierebbe una quantità di discorsi senza capo né coda. L bando la retorica, ci ha ammonito il telegiornale, la sera della Festa per il Tricolore, forte delle parole di MontaBenvenuta la retorica, tilo stesso giorno La a Bnelli tolava I DANDO la mattina del 14 luglio 1938 il Giornale d'Italia pubblicò, anonimo, il testo di un «Manifesto della razza» - che di lì a pochi _ giorni risulterà firmato da un gruppo di docenti come Guido Landra, Sabato Visco, Edoardo Zavattari, Lino Businco ma fra i quali uno solo, il senatore professor Nicola Pende, direttore dell'Istituto di patologia medica dell'Università di Roma, era forse quello che godeva di maggior prestigio ed autorità accademica - si ebbe la prova che Mussolini avrebbe introdotto in Italia rantisemitismo di Stato, sulla linea del razzismo persecutorio Ai politici farebbe molto bene; insieme con l'educazione». Da un angolo visuale diverso, alle frontiere più avanzate della società produttiva, Giampaolo Fabris vede nella 1 storica il vero linguaggio della società moderna. «La parola si è caricata di significati negativi solo per chi non la conosce. E' diventata sinonimo di parlare paludato, pomposo, falso. Ma fino a tutto l'Ottocento ha avuto un posto di grande rilievo nell'arte del parlare e del convincere», ci dice il sociologo, presidente della Gpf, istituto leader per le ricerche sui consumi. E oggi deve tornare ad averlo. «Dovrebbe essere applicata non solo al linguaggio scritto, ma anche alle immagini. La retorica dovrebbe essere il cassetto degli attrezzi, da utilizzare per i creativi; anche nell'abbigliamento. Io ne faccio uso, quando scrivo, sono attento a individuarla negli altri. I politici se ne avvantaggerebbero». Il luogo privilegiato della retorica, per Fabris, è la pubblicità. «Chi fa oggi il persuasore lo ignora. Ma non può farne a meno. I pubblicitari usano una quantità di metafore senza saperlo: come quel personaggio di Molière che non si era mai accorto di parlare in prosa». E, soprattutto, la retorica do- ilan EA retorica? Sì, per i pubblicitari è un esercizio quotidiano, a volte volontario e a volte no, dice Emanuele Pirella. E delinea un'alternanza tra consapevolezza e istinto che dall'antichità arriva, senza intervalli, alla comunicazione del Duemila. Allora, Pirella, non la stupisce essere maestro di retorica nella sua migliore accezione, di arte della parola usata per persuadere e commuovere? «Ci sono due eredi dei retori antichi: pubblicitari e avvocati difensori. Tutti e due, anche se il nostro non è un imputato, usiamo strumenti, artifici retorici, per offrire una verità di parte». A costo di bugie? «Quasi mai bugie. Si tratta piuttosto di convincere una giuria, nel nostro caso una giuria popolare senza però colpevoli». ra per raccontare un'ambizione sociale». Nobile mezzo per scopi commerciali? «Direi il ripetersi di un artigianato antico. Strumenti antichi che si tramandano, divenuti nobili. L'osso vecchie è garantito. Che poi ci sia più o meno calcolo... E' difficile applicare strumenti a freddo nella pubblicità, in un creativo lo strumento viene per istinto. Poi, rivedendosi, se ne accorge». Ma erano strumenti che conosceva. 0 si può esser maestri di retorica con un vuoto culturale alle spalle? «Sono strumenti che si hanno e si usano inconsciamente per poi riconoscerli. C'è chi se ne accorge e chi no. Se mi sfugge una metafora la rivedo poi con l'altro occhio. E devo ammettere che mi piace andare a rivedere e rileggere le cose che ho fatto». vrebbe tornare ad avere dignità di scienza. «Sarebbe auspicabile che trovasse un suo spazio nelle facoltà di comunicazione nate negli ultimi anni». C'è chi ha già raccolto, e non da ieri, l'appello. Il latinista Adriano Pennacini, che presiede il corso di laurea in Scienza della comunicazione a Torino, ha collocato la retorica come materia fondamentale nel terzo anno: «E la insegno io». Lo studioso dei classici ricorda che nel mondo greco e romano la retorica era l'unica disciplina studiata dai giovani fra i 14 e i 17 anni. Ma attraverso quella disciplina si approdava a tutto. «La retorica formava la capacità di organizzare il pensiero e comunicarlo in maniera possibilmente persuasiva. Insegnava a descrivere la realtà, costruire un racconto rispondendo alle sette domande fondamentali (chi, che cosa, dove, quando, con quali mezzi, come, perché?)». Chi aveva studiato retorica sapeva ragionare, esprimere e ricordare. Purtroppo, avverte il maestro di quest'arte, sono poi fioriti metodi argomentativi usabili in maniera ingannevole. La nuova fortuna della retorica nasce dalla generale insicurezza sulla verità. «Poiché il sugo retorico è persuadere le persone con le ragioni che esse stesse condividono, la retorica si aggira nella sfera delle opinioni condivise dalla maggioranza. E si espone all'accusa di non essere portatrice di vero; di poter subire l'influenza del potere. Ma la retorica non è verità, è tecnica. Può essere usata dai tiranni come dai filosofi, dai buoni come dai cattivi scrittori: il risultato dipende dall'uso che se ne fa». E questa tecnica, per esprimerci, e per capire chi si esprime, è ancora oggi fondamentale, sostiene lo scrittore Giuseppe Pontiggia, che ha tenuto corsi di scrittura creativa, sia a Milano sia a Torino, proprio Marco Neirotti introdotti in mi salone; è venuto il ministro e ci siamo sistemati attorno ad un grande tavolo. Ad un'estremità, da solo, il mimstro; ai lati i professori e poi noi giovani. Io ero l'ultimo, dalla parte di Pende, Visco e Zavattari. Ha avuto mizio la seduta. Non ricordo chi ha letto il documento; poi è cominciata la discussione, ben presto molto accesa (...). Ho il ricordo di Pende e Visco, in piedi, vocianti, e in particolare di Visco che gridava: "Non possiamo avallare le coglionerie scritte da giovani che noi stessi abbiamo avuto il torto di laureare uno o due anni fa". A questo punto Alfieri si è alzato e se n'è andato. Poco dopo qualcuno è venuto a chiamare Pende e Visco; una non lunga assenza e sono rientrati non di buon umore. Secondo quanto mi ha poi raccontato Landra, il rninistro li aveva informati che l'autore delle coglionerie era... il Duce!». La testimonianza inedita, di Ricci è importante: consente di wuminare il ruolo primario che Mussolini svolse nell'e¬ chiamato da Pennacini. «Ai miei allievi ho ricordato le idee di Gorgia, la capacità di giocare con il linguaggio. Il contrappunto delle antitesi come elementi portanti del discorso efficace vale sempre». Pontiggia constata che proprio l'abbandono degli studi di retorica ha portato una perdita nella scrittura. «Questi giovani possono scrivere buoni inizi, magari anche beile pagine, ma non hanno il senso della composizione; e non sanno concludere. E' una debolezza dovuta alla scarsa frequentazione dei classici, e alla mancata conoscenza della retorica». C'è qualche pericolo, in questo, anche per lo scrittore: diventare schiavo, anziché padrone dello strumento. «Quando se ne fa un abuso, quella che era una forza del linguaggio può trasformarsi in debolezza. Io stesso non mi sono sottratto al rischio, nella Grande sera. E ho poi riscritto il romanzo, per alleggerire il peso delle antitesi. Ma il rischio opposto, di ignorare la retorica, è più grave». Altri pericoli che la retorica può portare, con le sue seduzioni, sono più seri ancora. Se il suo fine è convincere, un buon argomentatore non ci può convincere al peggio? Lo storico Mario Isnenghi, che ha appena pubblicato due libri su L'Italia del fascio, e Simboli e miti dell'Italia unita, avverte che tocca a noi difenderci. «La retorica va recuperata, ma vista nei suoi due aspetti: la bontà degli argomenti, la qualità della loro presentazione. L'efficacia della presentazione non esime l'ascoltatore dalla verifica sugli argomenti presentati». Non è sempre facile, di fronte ai seduttori della parola. Quando Mussolini, con ottimo artificio retorico, chiedeva «Volete burro o cannoni?», la piazza rispondeva «Cannoni». «Si poteva sempre rispondere burro. Certo, di fronte a un Mussolini, e all'efficacia rustica del messaggio di Bossi, ognuno di noi rischia. E' come per lo spot del caffè. Dovremmo saper apprezzare la nuvoletta e sentirci liberi di bere un caffè diverso». No, non teme la retorica, lo storico di sinistra, che concorda pienamente con Viroli. «Purtroppo il fascismo ci ha riempito con i suoi riti e i suoi miti, la Repubblica antifascista è andata coi piedi di piombo su questo terreno. Oggi tutti esibiscono lo scetticismo e temono di apparire uomini di fede. Oggi è troppo facile chiedere burro. Ma io apprezzo sempre di più l'uomo di fede, capace di credere in qualcosa. Oggi mi viene da cantare la lode della fede, e non dello scetticismo». Giorgio Calcagno laborazione e nell'applicazione delle leggi razziali. All'indomani della comparsa del «Manifesto» il Duce aveva lasciato capire che «il suo obiettivo ultimo era quello di un'Italia senza ebrei ("Judenrein")» e l'anno dopo dichiarò all'ambasciatore degli Stati Uniti a Roma Phillips che per gli ebrei non c'era più posto in Europa e che alla fine avrebbero dovuto andarsene tutti: come ha scritto acutamente Michele Sarfatti, fu così che Mussolini, con gli ebrei, passò «dalla fase della persecuzione dei diritti alla fase della persecuzione della vita». Giuseppe Mayda