KASPAR HAUSER, ENIGMA DA RILKE A HERZOG di Claudio Gorlier

KASPAR HAUSER, ENIGMA DA RILKE A HERZOG KASPAR HAUSER, ENIGMA DA RILKE A HERZOG // giovane selvaggio nella Norimberga "800 ITALOAMERICANI MAFIA &c SPAGHETTI Da Puzo alla Paglia, vince lo stereotipo EL 1924 la scrittrice tedesca Klara Hofer, che aveva comprato una grande casa vicino a Norimberga, nel corso dei lavori di restauro scoprì una cella segreta che corrispondeva all'acquerello fatto da Kaspar Hauser del luogo in cui era stato cresciuto prigioniero. E in tempi recentissimi, nel 1983, in analoghe circostanze, una nuova proprietaria della casa trovò addirittura un cavalluccio di legno della precisa misura e forma di quella descritta dal misterioso ragazzo, morto assassinato nel 1833, con grande dolore del popolo tedesco che aveva preso a cuore la sua triste sorte. Se non fosse per il fatto che si conoscono due riscontri così concreti, il lettore del Kaspar Hauser di Anselm von Feuerbach uscito ora da Adelphi sarebbe quasi tentato di credere che quella storia che da un secolo e mezzo viene ripetuta con l'ossessione di una litania - duemila volte in volume e sei soltanto in questo libro (da Feuerbach, il giurista che si appassionò a quel caso; dai medici legali Osterhausen e Preti; dal barone von Tucher, il suo tutore; da Walter Benjamin e infine da Geminello Alvi) - sia una leggenda. quella del tradimento e dell'assassinio. Al contrario di Feuerbach che sembra convinto della buona disposizione della gente nei confronti dei bambini, Masson sostiene che Kaspar Hauser rappresenta invece la prova che nell'Ottocento i bambini erano odiati, picchiati e spesso uccisi per cose da nulla: «E questo era il l'atto più occultato del Diciannovesimo Secolo, così come le molestie sessuali ai danni dei bambini sono state il fatto più occultato del Ventesimo Secolo». Che Kaspar Hauser fosse o no il principe ereditario di un Baden, destinato a regnare, come pensava Rudolf Steiner, su una Germania diversa da quella unificata dalla Prussia, è il recupero della sua memoria e non la sua origine ad avere tanta presa, perché riflette il desiderio di sapere cos'è successo a noi, nei momenti più oscuri e dolorosi della nostra infanzia. L'intrigo dinastico e internazionale passa così per una volta in secondo piano. E del ragazzo vissuto come un'ostrica attaccata a uno scoglio, e morto nelle più Ed è in questo spirito che in un nuovo volume americano dal titolo Lost Piince (Free Press), l'ex direttore degli archivi di Freud, Jeffrey Mousaieff Masson, riesamina la vicenda del ragazzo che il 26 maggio del 1828 si presentò barcollante alla Porta Nuova di Norimberga. Qualcuno ricorderà che Masson qualche anno fa strapazzò gli eredi di Freud con gravi rivelazioni dai suoi archivi (riguardavano certe lettere inedite da cui si evinceva che Freud aveva abbandonato l'idea che molti casi di nevrosi originavano da molestie infantili subite in famiglie apparentemente rispettabili, per non finire isolato e mettere in difficoltà un amico). Ed è tenendo bene a mente le scoperte di Freud sulle molestie neiia Vienna dei suoi tempi, che Masson ricomincia la storia daccapo: il giorno che comparve per la prima volta a Norimberga Kaspar Hauser sapeva a malapena parlare, aveva abiti luridi, una lettera di presentazione per il capitano del reggimento di cavalleria, e nelle tasche polvere aurifera e un'immaginetta con la scritta «l'arte di porre rimedio al tempo perduto e negli anni passati malamente»: quello che in effetti gli successe, prima di morire a 21 anni pugnalato a morte nel giardino di corte. Nel suo lihro Feuerbach annota quasi giorno per giorno i miracolosi progressi di quel giovane selvaggio che viene nutrito e accudito e istruito fino a diventare tragicamente normale, un mediocre impiegato del tribunale di Norimberga (come racconterà poi Benjamin). Masson invece si chiede cos'abbia la sua storia da suscitare una così duratura passione nel pubblico europeo. Ed entrambi concordano sulla più accreditata soluzione all'enigma: Kaspar Hauser, rapito a 3 o 4 anni dalla principesca culla di Stéphanie e Karl di Baden per favorire l'ascesa al trono del cugino Leopoldo, sarebbe stato cresciuto a pane e acqua in una cella semibuia per 12 anni, e poi abbandonato in città allo scopo di farlo sparire nell'esercito o in manicomio. Quando invece il suo destino prese un'altra piega, e Hauser, ormai capace di esprimersi correttamente, iniziò a scrivere le proprie memorie, chi in passato lo aveva fatto rapire lo fece assassinare. E con grande probabilità assassinò anche suo padre il granduca di Baden, morto a soli 33 anni, e lo stesso Feuerbach, che si accasciò su un prato pochi mesi dopo l'agguato a Kaspar Hauser. Entrambi quasi certamente avvelenati. Per spiegare la sua seduzione si potrebbe dire che questa storia che ha ispirato in vari modi Rilke e Verlaine, Von Hofmansthal e Golo Mann, Melville, Peter Handke e Werner Herzog ha gli elementi di una favola: una grotta segreta, un ragazzo selvaggio con capacità straordinarie, un paria che poteva avere nobili origini e alla fine, forse, trionfare sul male. Ma questo non basta, dice Masson, a spiegare la resistenza del suo fascino. Lui, che si è battuto in questi anni in difesa delle cosiddette «false memorie», sostenendo la generale buona fede di chi attraverso la psicanalisi ha recuperato ricordi di molestie subite nell'infanzia, vede in Kaspar Hauser soprattutto un barn- bino molestato. «Forse il fascino subito dal mondo europeo del Diciannovesimo Secolo per la storia di Kaspar Hauser rappresenta in modo occulto una presa di coscienza della realtà della violenza sui bambini», scrive. Kaspar aveva subito dai genitori la violenza dell'abbandono, dal carceriere quella di una lunga segregazione, e dal sinistro lord Stanhope, il pari d'Inghilterra che prima finge di volerlo adottare e poi probabilmente lo fa assassinare, KASPAR HAUSER Anselm von Feuerbach Adelphi pp. 215 L 20.000 Nuore letture di un caso ùmollo in lei leniiura e in psicoanalisi: svelano occulti sensi di colpa per le violenze all'infanzia Rilke (a sinistra) fu con Verlaine e Von Hofmansthal tra i tanti poeti e scrittori sedotti dalla misteriosa vicenda di Kpspar Hauser (qui sopra) che torna ora in un volume Adelphi squallide circostanze, con il suo custode che insinua che si è pugnalato da solo e la polizia che lo interroga, resta solo qualche frammento di autobiografia. Comincia così: «Scriverò io stesso la storia di Kaspar Hauser! Racconterò come vissi in prigione, e descriverò che aspetto aveva, e tutto quel che c'era...». E continua come le leggende, moltiplicandosi in migliaia e migliaia di voci. famoso a livello mondiale, viene rappresentato quasi con disprezzo, saccente e vanitoso. Lo scritto di Gardaphé è apparso in una raccolta di saggi sugli scrittori italo-americani, Front the Margin, pubblicato nel '91, e lo stesso studioso è tra i direttori di Via, Voices in Italian Americana, una seria e ricca rivista dedicata appunto ad autori che rimangono in genere, nono- Livia Marcerà N un suo scritto sulla genesi del Padrino, Mario Puzo ebbe a sottolineare che il suo romanzo possedeva «energia», e che egli, come autore, aveva avuto la fortuna di creare «un protagonista accettato dai lettori come genuinamente mitico». Una dichiarazione del genere non è casuale, e si applica perfettamente anche all'ultimo successo di Puzo, L'ultimo padrino. In altre parole, Puzo ci spiega insieme i suoi intenti e la ragione del suo successo: scrivere un romanzo che non abbia, al fondo, reali ambizioni letterarie, ma che si imponga quale storia vera e, in definitiva, mito. Noi preferiremmo parlare di stereotipo, ma in sostanza il nodo centrale rimane lo stesso. A ragione, dunque, un critico italo-americano, Fred L. Gardaphé, ha insistito nel presentare i romanzi di Puzo nei termini di storie orali giunte alla scrittura senza perdere in nulla le caratteristiche peculiari dell'oralità. In L'ultimo padrino, Puzo ci ritrae il mafioso Pippi: «Quel bandito era un buon narratore, con una riserva di storie interessanti». All'opposto, il personaggio dello scrittore di professione, Vail, stante tutto e con rarissime eccezioni, marginali. A suo modo, il successo di Puzo contribuisce a respingere ai margini i suoi meno fortunati colleghi, proprio in quanto il pubblico americano tende a chiedere allo scrittore di matrice italiana essenzialmente degli stereotipi. Mario Puzo Dovremmo osservare preliminarmente che la cultura degli italo-americani resta ai margini non soltanto per ciò che riguarda la letteratura. Nessun politico italoamericano è assurto ai vertici: lo stesso Cuomo rifiutò la candidatura presidenziale giacché temeva di venire schiacciato dagli stereotipi, a cominciare dalla mafia. Puzo non gli ha certo reso un buon servizio. La chiesa cattolica ha annoverato negli Stati Uniti due soli cardinali di origine italiana, Bernardin, morto di recente, e Bevilacqua, a fronte di numerosi prelati di ascendenza irlandese e tedesca. L'oralità come linea di forza resta un dato cruciale. Vale per l'ormai dimenticato Pietro Di Donato, con il suo Cristo tra i muratori (1938); si coglie distintamente anche in uno scrittore ingiustamente trascurato in vita e rivalutato negli ultimi anni, John Fante, il quale meriterebbe ben altra attenzione che non Puzo, anche se il «tipico» delle comunità italiane qualifica l'ambiente della sua narrativa, senza mai trascenderlo. A questo punto si impongono due domande chiave, e giustamente esse ricorrono in alcuni studi apparsi nel primo numero di quest'anno di Via. La prima si potrebbe formulare così: quali, tra gli autori italo-americani di un certo rilievo, si possono ricondurre a un'autentica matrice italiana? La seconda, che talora rimanda alla prima, solleva un altro quesito: quanto spesso sono gli stessi autori italo-americani a convalidare gli stereotipi e a rimetterli in circolazione? Se l'ambiente italiano affiora nei romanzi di Don DeLillo, riesce arduo negare che si tratti di un autore americano in senso stretto. Più singolare il caso di una delle figure di punta del movimento beat, il poeta di Gasoline che, arrestato dai carabinieri a Firenze in preda a una micidiale combinazione di bevande alcoliche e di allucinogeni, declinò, come si usa dire, le sue generalità all'italiana, pur conoscendo poche parole della nostra lingua: Gregorio Nunzio Corso. Ma Vincent Zangrillo, che riporta l'inedito episodio nel numero di Via citato prima, sottolinea opportunamente che la calabresità di Corso, pupillo di Ginsberg e personaggio di Kerouac, resta affidata a rari momenti di nostalgia o, appunto, a echi stereotipici in Gasoline: la lira di Nerone di fronte all'incendio di Roma, le «strade della Mafia». L'esempio più sorprendente di debito nei confronti degli stereotipi si incontra in un'autrice apparentemente insospettabile, Camille Paglia, personalità quasi carismatica nell'ambito del movimento femminista e della scena artistica americana. La sensualità e lo spirito deca- dente che sono parte del suo carattere, confessa, le derivano dal lato napoletano della sua ascendenza. Non solo: «Come italiana, per me non è un problema conciliare violenza e cultura»; «una selvaggia veemenza di linguaggio è comune tra i meridionali»; «come italiana, credo i dieci occhi per occhio e dieci denti per dente». Forse anche per questo spaccio di luoghi comuni, confessa un autore di qualche notorietà come Gay Talese, un nome italiano può ancora incoraggiare la discriminazione persino a livello di istituzioni culturali, dalla scuola superiore all'università. «Siamo americani soltanto in parte», lamenta Talese, e racconta come il direttore di una rivista gli impose uno pseudonimo ebraico americano, Hyman Goldberg, in quanto il cognome italiano suonava inopportuno. Ma i primi a non far credito agli autori italo-americani sono spesso i lettori italo-americani. Talese sostiene che gli italo-americani leggono poco in assoluto, e si rivolgono piuttosto al cinema e alla televisione. Martin Scorsese racconta di avere una volta sbalordito i suoi genitori «arrivando a casa con un libro»: paradosso, ma assai significativo. Annette Wheeler Cafarelli, a cui mi rifaccio per alcune di queste indicazioni, nota ancora su Via che gli africanoamericani rifiutano gli stereotipi e rivendicano le proprie matrici culturali, ma bisogna rilevare che, per loro, la lotta per conquistare uno spazio, un'identità e una libertà nella società americana rifiuta l'assimilazione e propizia una rivincita. Non otterrebbe più molto credito, sospetto, la storiella che si raccontava a Brooklyn alcuni decenni or sono. Riguarda George Washington che si mette in salvo, incalzato dagli inglesi, su una barca attraverso il fiume Delaware gelato. «Fa uno freddo e' cazzo!» esclama il grande eroe, e il fedele barcaiolo, di rimando: «Italiano pure voi?». Claudio Gorlier