«In cella, condannato a non avere futuro»

UNA VITA DIETRO LA STORIA Spoleto, il racconto dell'uomo che da più tempo in Italia sta scontando l'ergastolo «In cella, condannato a non avere futuro» UNA VITA DIETRO SPOLETO DAL NOSTRO INVIATO Si alza alle 4 ogni mattina, che poi sarebbe ogni notte. «Faccio il caffè, metto i fondi nella piantina per concimare la terra, mi lavo il viso con l'acqua fredda, accendo mezzo toscano e guardo le luci dietro le sbarre della finestra. Mi fanno compagnia». A volte si siede al tavolino e scrive ai politici: Sgarbi, Maiolo, Bertinotti, i ministri della Giustizia di oggi e di ieri, Flick, Mancuso, Biondi, Conso, «mai una risposta». Fra le 5 e le 7 torna a letto, ma non dorme. «Alle 7,30 arriva il caffellatte, poi mi faccio la barba, accendo un altro sigaro. E comincia l'ozio, in attesa di qualche occasione per chiacchierare un po'». Benito Loggia, 57 anni, vive così da trent'anni. Una volta faceva l'infermiere all'ospedale psichiatrico di Trieste, lo arrestarono nel 1967 e da allora ha un'altra professione: carcerato, matricola EE29-67-04459. Nel 1970 arrivò la condanna, ergastolo, e l'altro giorno, nella cella 414 della casa di reclusione di Spoleto, ha celebrato il trentesimo Capodanno in carcere. Una classifica degli ergastolani con più anni di prigione alle spalle non c'è, ma secondo i dati del ministero della Giustizia, se non è il primo, Loggia è certamente nel gruppetto di testa. «Se dovessi tornare indietro e rivivere la mia storia - racconta chiederei la pena di morte. E' molto meglio, i familiari si fanno un pianto e finisce lì, resta solo l'incomodo di portare qualche fiore al cimitero. L'ergastolo, invece, è una sofferenza continua. In ogni caso non c'è futuro, allora preferisco che mi ammazzino». Eppure, le sue opportunità per farla finita con sbarre e porte blindate Loggia le ha avute, prima i permessi e poi la semilibertà, ma a sentire lui sfortuna e ingiustizia hanno tramato contro, e adesso eccolo qui, basso e massiccio, capelli bianchi e volto rubizzo, a raccontare la sua storia nella saletta colloqui di un super-carcere. E a discutere di ergastolo «dall'interno», visto che ogni tanto si riapre il dibattito e il neo-direttore delle carceri italiane, Michele Coirò, ha detto di essere contrario al carcere a vita. Benito Loggia è un assassino. La sera del 29 novembre 1967, nell'Italia in bianco e nero di Saragat, Bobby Solo e Mazzinghi, sulla strada fra Trieste e Capodistria, ha ucciso a coltellate una ragazza jugoslava di 16 anni, Iris Semenic, che «portava la minigonna e masticava gomma americana», sembrava ci stesse e invece finì in tragedia. Nelle parole di Loggia fu un drammatico incidente, «io ero ubriaco fradicio, da un mese avevo scoperto che mia moglie mi tradiva», Iris usciva da una discoteca e lui le diede un passaggio sulla sua spider 1600, «guidavo contromano, lei ebbe paura e cominciò a urlare», sotto & sedile dell'auto c'era un coltello, «lo presi per farla stare buona, ci fu una colluttazione ed è morta, ma io nemmeno lo sapevo, l'ho scoperto il giorno dopo dai giornali». Alcuni testimoni si ricordarono della spider, e il 1° dicembre la polizia lo andò a prendere in ospedale. Ci furono le indagini e i processi, la Lega per il divorzio tappezzò Trieste di manifesti, «non è giusto che la moglie di Loggia debba rimanere legata a un sicuro ergastolano», all'assassino non vennero concesse attenuanti, e il timbro definitivo della Cassazione sulla pena perpetua arrivò tre anni dopo, 7 dicembre 1970. Da allora il detenuto Loggia Benito ha girato le carceri di mezza Italia, ha vissuto due riforme penitenziarie, ha visto agenti di custodia corrotti e prigionieri in rivolta, celle dove si pasteggiava a champagne e cortili dove si consumavano omicidi. «Io agli abusi mi sono sempre ribellato, non ho mai potuto vedere né i ruffiani né gli spioni, ho sempre detto quello che pensavo», e così sono arrivate pure tre condanne per oltraggio a pubblico ufficiale e una per il mini-sequestro di un maestro, nel carcere di Viterbo, un anno di reclusione, ma è poca roba. All'inizio, racconta Loggia, «nelle carceri comandava chi faceva la voce grossa, la prima cosa che bisognava fare al mattino era affilare 2 coltello, perché quando scendevi in cortile non sapevi che cosa sarebbe successo, c'era tanta corruzione, gli ergastolani non avevano nulla da perdere e facevano i prepotenti, ma ogni piede trova la scarpa della sua misura, e così anche qualche duro ci ha lasciato le penne». Nel '75 arrivò la prima riforma, «era meglio tenere la buona condotta che imporsi con la forza», ma poi il terrorismo portò le carceri speciali e le rivolte violente. Dopo il mini-sequestro del '77, Loggia assaggiò il «tombarino» dell'Asinara, dieci giorni in isolamento in una cella piccola e buia, «mi facevano bere l'acqua marrone coi girini dentro, per ottenere quella pulita ho dovuto sfasciare il lavandino». Nelle sue peregrinazioni, la matricola EE29-67-04459 ne ha incontrate tante altre, terroristi della prima ora come Franceschini e Curcio, «gente istruita che per le condizioni carcerarie ha fatto molto», boss mafiosi come Luciano Liggio, «gli ho soffiato centinaia di sigari, vinti a scala quaranta», detenuti senza volto delle varie categorie che si sono succedute nel tempo, sequestratori, camorristi, spacciatori e drogati, extracomunitari. Loggia ha parlato e convissuto con tutti, senza mai stringere vera amicizia con nessuno: «Un ergastolano non se lo può permettere, perché la maggior parte sono detenuti a tempo, che poi se ne vanno e si dimenticano di te, e ogni volta è come se ti morisse un familiare. Allora è meglio imparare a stare soli». Nell'86 c'è stata la nuova rifor¬ ma, la legge Gozzini, con ulteriori benefici e sconti di pena previsti, «all'inizio è andata bene, ma dopo tre anni sono cominciate le rapine dei semiliberi, sono arrivate le restrizioni, e adesso è rimasto poco e niente». Ma Loggia Benito cominciò ad uscire dal carcere molto prima della Gozzini. Nel '79 ottenne il primo permesso di quarantott'ore, poi ne ha accumulati altri negli anni per andare a trovare la famiglia, sorelle e cognati, che con la moglie che lo tradiva troncò ogni rapporto dopo il processo. Ogni volta senza sgarrare, rientrando nel giorno e ora dovuti. Fu così che nell'83, durante un permesso, conobbe Rita sul treno che lo portava nelle Marche. «Scambiammo qualche chiacchiera, quando scesi le dissi: "Se vuole mi mandi una cartolina, a un detenuto fa sempre piacere", lei mi scrisse, poi verme a colloquio, ci siamo innamorati e nell'89 è diventata mia moglie)/. A fine '87, scoccati i vent'anni di carcere, l'ergastolano Loggia che nel frattempo s'è diplomato in floro-vivaistica, fa la domanda per la semilibertà, e il tribunale dice di sì: può uscire dal carcere al mattino e rientrare la sera. Ma durante i mesi del lavoro all'esterno capita l'altra disavventu¬ ra: una donna lo accusa di tentata violenza, di nuovo c'è di mezzo l'alcol, lui nega, «c'era la parola di un'incensurata contro quella di un egastolano», in appello lo condannano a 3 anni «per la recidiva». Da allora è saltata la semilibertà, e con lei tutti i permessi, il portone del carcere, per Benito Loggia, s'è richiuso il 27 aprile 1990. Adesso sono trascorsi tutti i termini, quelli della condanna e i cinque anni necessari per fare nuove domande. Il suo avvocato Pietro Caponetti le ha presentate regolarmente, e lui ha chiesto la grazia al Presidente della Repubblica; le relazioni degli operatori carcerari dicono che per Loggia c'è «un grosso punto interrogativo sull'effettiva efficacia di ulteriori trattamenti in stato detentivo». Come dire che, se la pena dev'essere rieducativa, ormai dovrebbe uscire di nuovo. Ma negli ultimi mesi c'è stata pure la reazione contro un giudice di sorveglianza, che non ha portato neppure alla denuncia, ma ha nuovamente allungato i tempi dell'attesa. Nel frattempo la vita nel carcere di Spoleto scorre nell'ozio: «Al mattino sono completamente solo, perché gli altri lavorano e io non posso per motivi di salute, a mezzogiorno pranzo in cella, mi riposo mezz'ora e nel pomeriggio I vado in sala giochi, dove faccio qualche partita a scopa con gli altri. Parlo poco, perché i discorsi dei carcerati mi hanno stancato. E poi guardo la tv, che mi sta rovinando gli occhi». Una volta al mese, per due ore, c'è la visita di Rita. «Io chiedo soltanto di stare vicino a lei e aiutarla a coltivare il suo pezzetto di terra», dice Loggia. «La gente dice che l'ergastolo ormai di fatto non esiste, invece esiste eccome. Perché l'ergastolano, anche se esce, è sempre sotto osservazione, e se si ferma a fare pipì per la strada, e uno lo vede e lo denuncia per atti osceni in luogo pubblico, quello torna dentro e non esce più. L'ergastolano non ha futuro; a una fidanzata ho dovuto dire di sposarsi e farsi una vita, non si può aspettare un ergastolano». Ma perché la società dovrebbe fidarsi di uno come Loggia, che ha avuto le sue possibilità e ha fallito? «Perché io non sono un delinquente abituale - risponde lui -, quell'omicidio fu una disgrazia, e per dire che in semilibertà ho fallito ci vogliono prove vere, non le chiacchiere di una che non ho nemmeno sfiorato». Nei tribunali c'è scritto che la legge è uguale per tutti, ma Loggia dice che non è così: «Io sono l'esempio vivente. Ci sono criminali, che hanno commesso decine di omicidi, liberi e pagati dallo Stato. E a parte i cosiddetti pentiti, ci sono pure i ruffiani e i lecchini che l'hanno fatta franca, mentre io sto dentro da trent'anni». La sua speranza è che il nuovo permesso arrivi per Pasqua: «Le feste comandate sono il momento più triste. Come ho trascorso Natale e Capodanno? In cella da solo. L'umiliazione più grande è che su venti detenuti della mia sezione, quindici sono andati a casa per le feste, e io sono rimasto qui». Dopo la partita e le poche chiacchiere del pomeriggio, Benito Loggia toma in cella per la cena, poi di nuovo in «sala tempo libero» fino al telegionale delle 20. «Quello me lo guardo in cella, poi mi dò una sciacquata e mi metto a letto. Ma riposo, non dormo. Da quella sera del 1967 il rimorso non mi ha lasciato più». Giovanni Bianconi IL CARCERE A VITA «E' una sofferenza continua, sarebbe davvero meglio che mi ammazzassero Resterebbe ai miei familiari soltanto l'incomodo di portare fiori al cimitero» L'AMICIZIA «In prigione non ho mai stretto legami perché quasi tutti i detenuti sono a tempo: a un certo punto se ne vanno e per chi resta è un po' come morire» Benito Loggia ha 57 anni ed è in carcere dal '67 per l'omicidio di una ragazza slava sedicenne Nei penitenziari ha conosciuto boss come Luciano Liggio e terroristi come Curcio e Franceschini A destra, un'immagine-simbolo della vita in carcere: nelle prigioni della penisola, su quasi 50 mila detenuti, oltre 21.000 sono in attesa del verdetto della Cassazione Il penitenziario di Spoleto. Qui sotto, il direttore delle carceri italiane, Michele Coirò. In basso Benito Loggia ai tempi dell'arresto