Anche la Chiesa abbandona Milosevic di Giuseppe Zaccaria

Storica presa di posizione: i vescovi invitano «a riconoscere la volontà del popolo» Storica presa di posizione: i vescovi invitano «a riconoscere la volontà del popolo» Anche la Chiesa abbandona Milosevic // Sinodo ortodosso scomunica il regime serbo BELGRADO DAL NOSTRO INVIATO Dice la storia che quando ad un regime vengono a mancare il sostegno dell'esercito, della Chiesa e degli intellettuali, questo regime è destinato a finire. Per l'autocrazia di Slobodan Milosevic l'ultima parte della parabola s'è iniziata ieri. Prima aveva perso la gente, anche se dal suo punto di vista questo contava poco. Poi l'Armata ha fatto sapere: «Non punteremo i nostri cannoni contro il popolo». L'ultimo dell'anno in piazza della Repubblica si sono visti i giullari del regime con in testa Emir Kusturica salire sul palco delle opposizioni come topi che si aggrappino a una zattera. Ieri è stata la volta della Chiesa ortodossa. Il Sinodo e la Conferenza dei vescovi, riuniti in seduta straordinaria, hanno lanciato contro il Presidente e il suo governo l'attacco più diretto e violento che si sia udito non negli ultimi 5U anni, ma in tutta la storia della Chiesa serba, tradizionalmente più che contigua al potere. Le gerarchie ecclesiastiche condannano «le manipolazioni elettorali, gli interventi della polizia, il soffocamento delle libertà civili», invitano il governo «a riconoscere la volontà del popolo», e come accade a chi troppo a lungo ha taciuto, fanno seguire all'anatema una serie di rivendicazioni proprie che in momenti come questi potrebbero apparire stravaganti, ma pongono invece l'apparato di fronte a un problema che pareva accantonato e adesso può solo aggravare le sue responsabilità. Per chi giudica coi nostri parametri, forse non è facile cogliere la portata di quanto sta accadendo ma per la stragrande maggioranza dei serbi, che si proclama credente, questo è quasi un evento epocale. La Chiesa di Belgrado è da sempre abituata a vivere di grandi, eccentriche individualità (un nome per tutti, Petar Petrovic Njegos) e ad annullarle poi in un'organizzazione secolarmente immobile. Costretta per secoli a convivere col dominio ottomano e poi col cinquantennio collettivista, ha finito per elaborare da un lato codici di riconoscimento di tipo etnico, dall'altro per configurarsi come sistema di resistenza allo straniero. E' una confessione nata prima dei serbi ma che per i serbi, intorno ai serbi, ha sviluppato tutta la sua storia. Che ha gestito le anime come numerosi capibanda e qualche re gestivano lo Stato, all'interno dell'identica e fortissima identità nazionale. Una struttura, insomma, assolutamente connaturata al governo di questa comunità di isolati. Qualche settimana fa Gojko Stojevic, ['ottantaduenne Patriarca venerato col nome di Pavle, aveva già dato il segno che qualcosa stava cambiando. Per la prima volta ave- va accettato l'intervista con un giornale straniero, e proprio a «La Stampa» aveva dettato prime, prudenti dichiarazioni sulla crisi politica e le responsabilità del governo. Adesso questa prudenza pare abbandonata. Dalla diocesi del Sabak un vescovo dei più combattivi, Lavrentje, aveva raccolto l'adesione di 230 sacerdoti che chiedevano al Sinodo di pronunciarsi. E adesso la Chiesa accusa il regime di evocare «l'ombra di Caino sul fratello Abele», lo condanna poiché «non si fa remora di soffiare sullo scontro fratricida al solo scopo di mantenere il potere», lo accusa di «aver calpestato la dignità culturale ed i valori tradizionali della nazione abbandonando ai loro destini i serbi della diaspora». Lo invita infine a «dare segni di ragionevolezza e rispettare la volontà liberamente espressa dal popolo». Non sarà facile. Con l'accenno ai «serbi della diaspora» il Sinodo tocca un altro dei nervi scoperti della nazione, lo stesso che nell'esercito sta provocando minacce di rivolta. Dove sono le decine di migliaia di serbi fuggiti dalla Krajina e dai sobborghi di Sarajevo? Dove, i «fratelli» alle cui povere colonne Milosevic proibì l'ingresso in Belgrado? Si trovano ammassati a Bricco, nell'entroterra di Dubrovnik o nel Ko¬ sovo, vivono la condizione psicologica dei traditi e quella quotidiana degli emarginati. Anche i montanari della «Srpska Republika», i soldatini di Mladic, sembrano aver capito. Sospinti ad una guerra e ad un assedio che li hanno condotti a nulla, oggi vivono la condizione di paria del mondo. Non appartengono ad uno Stato riconosciuto, non hanno passaporto, non denaro, non futuro. 11 grande burattinaio, poi grande costruttore di pace, oggi è solo un grande imputato. Non vuole cedere, raccontano, e la moglie lo sostiene. Una portavoce dell'Osce ha detto ieri da Vienna che con una lettera il governo jugoslavo ha chiesto altro tempo per la risposta. In piazza della Repubblica, un Vuk Draskovic che comincia ad assaporare il gusto del trionfo ha detto pubblicamente: «Se la no¬ stra vittoria del 17 novembre sarà riconosciuta, interromperemo subito le manifestazioni e apriremo un tavolo di trattativa». Non sarà semplice. Ieri a Belgrado la polizia (ultimo bastione del regime, assieme con l'apparato politico e burocratico! appariva più presente e determinata che mai. L'anatema del Sinodo apre puro per Milosevic un fronte imprevisto. Fino a ieri, il regime poteva considerarsi forte non solo nelle fabbriche, ma anche nelle campagne della Serbia più profonda. Lì dove, grazie allo scandaloso black out di emittenti e giornali eh Stato, l'eco di questa prolesta è giunta solo molto attutita. Adesso saranno i «pope» a spiegare ai fedeli cosa sta succedendo. Come credere ancora che quest'onda possa essere fermata? Giuseppe Zaccaria Tradizionalmente vicini al potere, i «pope» ora accusano il Presidente «Calpestata la dignità» ^ Il patriarca ortodosso Pavle. A sinistra, studenti in piazza a Belgrado e il presidente Slobodan Milosevic

Persone citate: Bricco, Emir Kusturica, Milosevic, Mladic, Patriarca, Petar Petrovic, Slobodan Milosevic, Vuk Draskovic

Luoghi citati: Belgrado, Sarajevo, Serbia, Vienna