NELLA BOTTEGA DI CIMABUE LA PITTURA ESCE DAL MEDIOEVO

NELLA BOTTEGA DI CIMABUE LA PITTURA ESCE DAL MEDIOEVO II IMI NELLA BOTTEGA DI CIMABUE LA PITTURA ESCE DAL MEDIOEVO Sul Maestro di Giotto una monografia definitiva ELLA storiografia artistica è difficile e forse impossibile citare un caso più clamoroso, lungo i sette secoli intercorrenti fra Dante e il nostro tempo, di oscillazione pendolare fra l'eccellenza e l'azzeramento di quello riferibile a Cenni di Pepi detto Cimabue. Fra la testimonianza di Dante, contemporaneo, dotato anche di formidabile immaginazione visiva e pittore egli stesso di tavolette di angeli, come ricorda nella Vita Nova, «Credette Cimabue nella pintura/tener lo campo e ora ha Giotto il grido», e l'unica novella nei seriosi e rigorosi Commentari del Ghiberti, con Cimabue che incontra nella campagna fiorentina il pastorello Giotto che graffisce sulla pietra l'immagine «naturale» della pecora e lo porta con sé per insegnargli l'arte. Vi era stata anche la testimonianza di Filippo Villani, «per primo richiamò alla somiglianza della natura l'arte della pittura». E subito seguirono Cristoforo Landino, editore della Commedia, «Fu dunque il primo Giovanni Fiorentino cognomato Ci¬ mab h itò lii gmabue, che ritrovò e lineamenti naturali et la vera proporzione, la quale e greci chiamano Simetria; et le figure de' superiori pittori morte fece vive di vari gesti, et gran fama lasciò di sé», e l'anonimo autore alla fine del '400 delle Antiquarie prospettiche romane, che addirittura dichiarò autori delle appena scoperte decorazioni romane «grottesche» Apelle, Giotto e «Cinabuba». Dopo che, in clima di riscoperta dei primitivi, Ingres si dichiarava «innamorato alla follia» e Robert Browning cantava «Il mio pittore chi è se non Cimabue?», fra estremo '800 e primissimo '900 questo fondamento dell'arte nuova occidentale si ridusse, anzi fu ridotta a fantasma e puro mito. Era avvenuto che Franz Wickhoff, uno dei maestri della scuola viennese di storia dell'arte, aveva documentariamente scoperto che la Madonna Rucellai, secondo il Vasari il capolavoro di Cimabue ammirato da Carlo d'Angiò nella sua bottega suscitando la gioia del vicinato, tanto che da allora la strada fu chiamata Borgo Allegro, era in realtà opera di Duccio da Boninsegna. Il crollo fu rapido e immediato, il grande specialista di «primitivi» Langton Douglas dichiarò «to scientific criticism as an artist in an unknown person» e giunse a paragonare Cimabue all'Umpty Dumpty della filastrocca per bambini, cascato dal muretto e andato in pezzi. Così che, controbbattendolo, l'Aubert, autore nel 1907 del primo approfondimento scientifico, potè definire il maestro di Giotto «Der grosse Unbekannte», il grande ignoto. Questa incredibile vicenda è analizzata nell'introduzione della sontuosa monografia di Luciano Bellosi, completamento e integrazione ideale della Pecora di Giotto pubblicata nel 1985 presso Einaudi, non solo per la metodologia scientifica di introdurre una figura d'artista nella sua immagine sfaccettata lungo i secoli attraverso la sua «fortuna critica», ma certo anche per evidenziare la massima oscillazione positiva del pendolo storico-critico. Non per ridare dopo un secolo, le monografie di Nicholson e di Battisti e i contributi fondamentali di Toesca, Longhi, Bologna, Marques, Boskovits muscoli e corpo da superman pittorico al fantasma di Wickhoff e soprattutto di Langton Douglas (ad esempio è netto il rifiuto dell'attribuzione da parte di Longhi della Madonna in trono Contini Bonacossi degli Uffizi), ma per ristabilirne definitivamente il ruolo di pietra angolare, di crocevia imprescindibile fra la tradizione «greca» (bizantina) ma ancor prima «latina» (classica romana) e ogni futuro dell'arte occidentale. «Per un lungo periodo di tempo avevo pensato a lui come all'ultimo grande artista del Medioevo, restando scettico di fonte alla tradizione che lo vedeva come il primo innovatore della pittura italiana... Successivamente, approfondendo lo studio, mi sono reso conto delle grandi intuizioni, delle grandi idee nuove, che sono nate nella mente di Cimabue e che costituiscono la premessa irrinunciabile del rinnovamento giottesco. Se non ci fosse stato Cimabue, non ci sarebbe stata nemmeno la grande mutazione portata da Giotto nella pittura. E' come se Cimabue, servendosi ancora di strumenti medioevaLV avesse vissuto una ten¬ sione verso il nuovo che indicava la strada da prendere al giovane genio che gli fu allievo». E ancora, a proposito del sistema decorativo ispirato ai motivi e alla spazialità delle decorazioni architettoniche cosmatesche romane e della riconoscibilità oggettiva e non simbolica della rappresentazione dei monumenti romani (ripresa e approfondita nell'«Ytalia» sulla volta degli Evangelisti, affrescata da Cimabue nella Basilica superiore di Assisi) nella grande riscoperta degli ultimi anni, gli affreschi restaurati nel Sancta Sanctorum di Roma, i cui autori, il «Maestro del Sancta Sanctorum» e il giovane Jacopo Toniti, recano secondo Bellosi l'impronta profonda e indubbia della documentata presenza a Roma di Cimabue nel 1272: «Prima del restauro non si vedeva un particolare del sistema ornamentale, cioè i nastri di finte decorazioni cosmatesche nelle cornici delle lunette, ispirate alle decorazioni delle architetture, dei pavimenti e degli arredi liturgici delle chiese romane. Si tratta di una novità enorme per la pittura dell'epoca, perché comporta lo scatto di una molla importante nella mente di un pittore duecentesco, quella di ispi¬ rarsi a una realtà vista con i propri occhi e non soltanto a una tradizione figurativa preesistente... E' qui che scatta un'idea nuova, inaudita per il Medioevo che di Roma e dei suoi monumenti aveva dato solo immagini simboliche, che avevano bisogno di segni araldici e di scritte esplicative per diventare comprensibili, mentre qui basta guardare con i propri occhi per capire. E' scattata l'idea di «ritrarre» una cosa come appare nella realtà, un'idea completamente nuova che incide sulla concezione stessa dell'arte figurativa, ingranando una marcia in più e ponendosi come una nuova frontiera della pittura». Nella trattazione di Bellosi, Cimabue-diventa allora dalla prima "opera, che fautore ritiene essere il Crocifisso in San Domenico ad Arezzo riconosciuto a Cimabue dal Toesca, con la prima decisiva scelta di rifarsi al modello più «moderno» di Giunta Pisano anziché a quello casalingo di Coppo di Marcovaldo, ancora rigidamente arcaico bizantino, all'ultima e unica documentata, il S. Giovanni Evangelista a mosaico nell'abside del Duomo di Pisa del 1301 -2 il centro e lo snodo di tutti i grandi problemi e momenti dell'arte occidentale della seconda metà del '200: la recente scoperta dell'incontro fra arte bizantina e arte occidentale nelle miniature e nelle icone nei regni cristiani crociati in Palestina e Siria, da cui riecheggia l'importanza anche artistica del centro pisano, Repubblica marinara con grandi interessi in quei regni; la triplice radice in Cimabue dell'arte romana di Toniti, di quella senese di Duccio e di quella fiorentina di Giotto. Marco Rosei L'autore Luciano Bellosi lo descrive come il centro e lo snodo dì tutti i grandi problemi dell'arte occidentale nella seconda metà del Duecento cimabue Luciano Bellosi Federico Motta Editore pp. 304 L 140.000

Luoghi citati: Arezzo, Assisi, Bologna, Palestina, Roma, Siria