Vidal: io, l'oltraggioso

Vidal: io, l'oltraggioso Intervista con lo scrittore, ospite con un documentario al festival dei «corti» di Positano Vidal: io, l'oltraggioso «Sono duro, in tv hanno paura di me» POSITANO DAL NOSTRO INVIATO Gore Vidal ha una cravatta con svolazzi e farfalle e alcuni bicchieri di whiskey nello stomaco. Si presenta dichiarandosi un friulano, con chiara allusione all'origine del cognome, ma, nonostante viva da anni a Ravello e abbia avuto a lungo una casa a Roma, questo famosissimo scrittore che ha costruito la sua firma unendo il cognome Gore al Vidal che gli viene dal padre, resta un americano a tutti gli effetti. Legge giornali americani, frequenta amici americani, parla americano visto che l'italiano gli serve solo per frasi di convenienza, partecipa alla vita politica americana con la stessa passione che aveva in gioventù quando arrivò a candidarsi. Per di più scrive, e continua a farlo, sulla stampa americana: «Newyorker», «Vanity fair», «The nation». Ravello è il posto più bello del mondo, ma la testa e il cuore di quest'intellettuale, figlio di una delle più importanti famiglie americane con sei Stati del Sud in mano a parenti, oltre alla vicepresidenza affidata al cugino Al Gore, sono e restano negli Stati Uniti. Contento che questo documentàrio sii di lèi'vada di nuovo in onda? «Purché lo veda qualcuno. Sa, quando feci con la Rai e Channel 4 "Vidal in Venice", dieci anni fa, lo trasmisero la notte di Ferragosto, anche se era davvero importante. E all'anteprima a Londra, il 21 dicembre in teatro, mi ricordo benissimo che i dirigenti della Rai, presenti con le loro signore, appena si spensero le luci per la proiezione si alzarono dalle loro poltrone e se ne andarono a a comprare i regali per Natale. Che dire, quindi? Sulla Rai ho sempre delle perplessità». Eppure di tv ne ha fatta tanta. «Sì, ma adesso non mi invitano più. Sostengono che sono troppo duro, che dico cose sgradevoli, che sono oltraggioso. Da quando nel '68, durante un dibattito per la campagna elettorale di Nixon, dissi che repubblicani e democratici erano uguali perché prendevano i soldi dagli stessi gruppi, non mi hanno più voluto. Peter Jennings, ogni 4 anni, prova a riportarmi alla ABC, ma non c'è niente da fare. L'America è un paese dove la censura conta moltissimo». Eppure in Italia si pensa che più gruppi televisivi nascono, più si possa sperimentare la li- berta di parola. «Mah. Dell'Italia so poco, ma dell'America so più di Updike, di Norman Mailer e di Rotli messi insieme. Negli Usa tutte le tv dipendono dalla pubblicità, quindi, anche se sono tante, non mi pare sia cresciuta la democrazia». Del caso Clinton, però, la stampa si è occupata ampiamente. «E' un'altra storia, questa. Clinton s'è trovato coinvolto in una guerra tra ricchi e poveri. E lui è dalla parte dei poveri. Primo: perché ha sempre difeso i neri. Secondo: perché voleva un sistema sanitario pubblico. Due colpe che i grandi gruppi economici non gli hanno perdonato. Noi in America paghiamo tasse salatissime ma i soldi se ne vanno tutti per le armi: negli ultimi 40 anni ho contato 150 conflitti in cui siamo intervenuti, direttamente o no. E' un imperialismo intollerabile, il nostro». Che ne pensa di suo cugino Al Gore? «Direi che non mi è simpatico: gli preferivo suo padre». E il cinema contemporaneo? Lei che ne ha vissuto gli anni gloriosi ritiene che Hollywood sia in crisi? «Hollywood è sempre stata una merda, ma, a volte, anche a lei riesce di fare dei buoni film. Ultimamente, quando sono stato a Washington per una lezione di letteratura, ne ho visti un paio che mi sono piaciuti: "Vita e morte a Long Island" e "Gods and monsters". Niente male». E i molti film sulla crisi della presidenza americana li ha visti? «Mi fa piacere che vengano fatti film come "Wag the dog" o come "La seconda guerra civile americana" di Jo Dante. Almeno parlano di qualcosa. Ho visto "Primary colors" però, e posso dire che è la scopiazzatura del mio "The best man": la differenza è che oggi Travolta fa quello che Henry Fonda si rifiutava di fare, segno che la corruzione è cresciuta. E' certamente il mio film migliore, quello. Ricordo che faticai moltissimo per tenerne lontano quell'opportunista di Frank Capra che col suo sentimentalismo me lo avrebbe snaturato». E' vero che lei scrive sempre? «Per me è come giocare a bridge: dopo i settantanni qualcosa la devi pur fare». Simonetta Robiony POSITANO. Con la proiezione del documentario «Gore Vidal's Gore Vidal» si è concluso ieri a Positano il piccolo festival, tre giorni appena, dal 26 dicembre al 29, «Lo sbarco dei corti», vinto dal film «Santa Lucia» del giovane regista Enrico Vecchi. Su Vidal anche lo studioso Fred Kaplan, autore di biografie illustri famosa quella su Henry James, lavora da anni. Il documentario presentato a Positano è stato realizzato in due momenti diversi dalla Bbc: una prima parte, girata qualche anno fa per una grande inchiesta sulle famiglie, e una seconda parte, girata dopo l'uscita del libro di memorie «Palimpset», fatta in tempi più recenti. Il documentario, arricchito da una intervista televisiva, verrà mandato in onda in febbraio da Raisat. Molte le immagini di gente famosa, a metà tra politica, finanza e spettacolo, con cui Vidal ha avuto a che fare nella sua vita: il presidente John Kennedy e sua moglie Jackie che ebbe con Vidal un patrigno in comune, lo scrittore Tennessee Williams a Roma, Joanne Woodward e Paul Newman sulla spiaggia di Malibù, Susan Sarandon e Tim Robbins davanti a un tavolo. Dei suoi sentimenti privati però, Vidal, contestatore radicale nonché omosessuale dichiarato, parla pochissimo. Solo un momento, riflettendo sul non aver avuto figli dice: «Ho avuto qualche rimpianto a 40 anni: ma è durato poco». «Scrivo ancora perché dopo i 70 anni devi pur fare qualcosa» «Hollywood fa schifo ma ho visto alcuni film buoni. Capra? Era un opportunista» Gore Vidal. A sinistra un'immagine di Paul Newman e Joanne Woodward