Duemila volte Barbie Un mito lungo 40 anni

Duemila volte Barbie Un mito lungo 40 anni Una mostra in Germania celebra la bambola, venduta in oltre un miliardo di esemplari Duemila volte Barbie Un mito lungo 40 anni costume un giocattolo sìmbolo BRUCHSAL DAL NOSTRO INVIATO L'omaggio comincia in rosa, in forma di un altare drappeggiato col tulle e le pailettes: «Per dar solennità al mito, per rendere omaggio a un oggetto di culto», spiega Wolfram Metzger, direttore del «Landmuseum Bruchsal» e curatore della mostra «Quarant'anni del mondo Barine». L'idea di raccogliere duemila esemplari della bambola più famosa e amata, più imitata e vilipesa, studiata, analizzata, derisa o celebrata, è sua: «Dal 9 marzo del '59, il giorno della nascita, Barbie è sempre stata un sismografo della società occidentale, ha attraversato moda e costume, ha anticipato il ruolo della donna e i tempi», riassume. Etnologi prestigiosi e celebrati come Claude LéviStrauss autorizzano, almeno in apparenza, l'entusiasmo: «Vale la pena riflettere su Barbie», ricorda un murale-citazione subito all'ingresso. La Germania più di qualsiasi altro Paese, forse, ha motivo di far festa a una bambola della quale sono stati venduti oltre un miliardo di esemplari in tutto il mondo, al ritmo (attuale) di una ogni due secondi: a Ruth Handler, l'americana proprietaria della fabbrica di giocattoli Mattel, l'idea di una «bambola nella quale i bambini possano specchiarsi» venne leggendo la «Bild Zeitung». A partire dal '52 e per alcuni anni, il quotidiano popolare a grande tiratura pubblicò le strisce giornaliere di «Lilli», una ragazzina bionda, emancipata e longilinea che il suo inventore Reinhard Beuthien aveva reso emblema della donna tedesca ansiosa di imporsi e di affrancarsi, dopo gli orrori della guerra e le fatiche della prima ricostruzione. Dal '55, al cartoon si affiancò una bambola in vendita soltanto nei chioschi di giornali. «Chi dona con amore/pensa a Lilli», suggeriva la pubblicità, della Bild: per convincere le giovani coppie a farne il simbolo del loro legame, un'occasione di complicità e di unione. Ruth Handler ne comprò un esemplare e poco dopo anche i diritti di riproduzione. Ma - mentre già le cambiava il nome in Barbie, per via della figlia Barbara appena nata - si rese conto che il modello andava «rivisto e ritoccato», per essere accettato al meglio dal pubblico d'America: lo studio durò due anni, nel corso dei quali la fisionomia originale rimase intatta ma la capigliatura smagrì, le ciglia si sfoltirono, le proporzioni si fecero più snelle. Il risultato - affidato alle cure di una piccola équipe trasferita in Giappone per via di costi di produzione, più favorevoli nella fase di lancio sul mercato - fu l'avvio del mito: in una vetrina lunga quanto un corridoio, la «Numero 1» che guida la sequenza di un centinaio di compagne tutte alte come lei, 29 centimetri, indossa un costume da bagno a strisce bianco-nere, nasconde gli occhi azzurri dietro occhiali da sole dalla montatura a farfalla, ha orecchini dorati e rotondi, e i capelli biondoscuro raccolti a coda. La «Numero 2», subito accanto, ha sandali rossi dal tacco alto, e anziché gli occhiali esibisce sopracciglia cerchiate di trucco. La «Numero 3», apparsa nei primi mesi del '60, porta una parrucca nera, lo stesso colore della scarpette a fibbia. Ma per comprendere la successione dei modelli - preparati con riferimento alla realtà e ai canoni contemporanei di bellezza - per capire il loro successo tenace e senza interruzioni, la chiave è probabilmente un'altra: come nessuna bambola prima di lei, in questo secolo almeno, Barbie ha costruito la propria identità secondo il principio «tanti abiti per ogni esemplare venduto». La mostra conferma: duemila Barbie sono poche per rappresentare tutti gli abbigliamenti realizzati secondo gli originali degli stilisti più famosi, da Dior a Chanel e via via fino a Benetton. In una teca ci sono perfino tute da astronauta, divise da poliziotta, da pilota e da pompiere, accanto all'abito di gala indossato il giorno della nomina a «candidata alla presidenza americana». Un mantello nei colori na zionali bianco, rosso e blu che conferma la vantata forza profetica del fenomeno Barbie, la sua abilità di «anticipare e prevedere», come teorizza Metzger. Ma che non smentisce certo l'impressione di quanti attribuiscono al «cambio in guardaroba» il successo di un «mito dei consumi», o ne deplorano lo «stimolo a una sovrapposizione che conduce all'irrealtà». L'enfasi celebrativa attenua purtroppo la visibilità dei com¬ primari della saga. Ed è un peccato, perché via via negli anni il mondo di Barbie si è moltiplicato fra amici, fratelli, cugini e affini, e comprende oggi una trentina di modelli (c'è perfino una giovane invalida su carrozzella). Ma in un sistema Barbiecentrico, il mondo gira intorno a lei. Emanuele Novazio Battezzata col nome della figlia del suo inventore Da Dior a Chanel stilisti in gara per vestirla Nif«io cil afa o zeo In Germania una mostra celebra i quarant'anni di Barbie Sopra una fase del trucco di Barbie A destra la bambola alla guida della sua auto In Germania una mostra celebra i quarant'anni di Barbie

Persone citate: Claude Lévistrauss, Emanuele Novazio, Metzger, Reinhard Beuthien, Ruth Handler, Wolfram Metzger

Luoghi citati: America, Germania, Giappone