Si spegne l'arcobaleno di New York di Gabriele Romagnoli
Si spegne l'arcobaleno di New York Inaugurato nel '34, non ospiterà i party di Natale e Capodanno perché l'affitto era salito a 7 miliardi Si spegne l'arcobaleno di New York Chiude la «Rainbow room», era il locale dei vip NEW YORK DAL NOSTRO INVIATO Racconta che, danzando, Bill Clinton aveva la faccia di un bambino a Natale. Conduceva la sua compagna con grazia e per un attimo rimasero soli nella cornice della vetrata su Central Park. Erano passati trent'anni da quando Rita Moreno aveva ballato in «West Side Story», ma i suoi passi erano impeccabili. Quelli del presidente, un po' meno, ma lei non glielo fece notare e lo guidò senza che apparisse, come erano solite fare le donne della sua vita. Quando la musica cessò, fu Pdta a riaccompagnarlo al tavolo. Lui, ancora raggiante, disse: «Stanotte ho realizzato il sogno della mia vita». Lei accennò un inchino, poi guardò la donna seduta, perennemente al suo fianco, perennemente in disparte e disse: «Sorry, Hillary». Mi spiace, Hillary. La musica riattaccò e coprì la risposta della first lady. Raccontane un'altra, Dale. Gli viene in mente Frank Sinatra. Quella sera che arrivò con tutta la banda. E, a un altro tavolo, c'era anche Bob Dylan. Puoi immaginarli: Sinatra e Dylan nella stessa stanza? Solo alla «Rainbow Room», sessantacinquesimo piano del palazzo della General Electric, pareti di vetro per vedere tutta New York. Ricorda che Sinatra si sedette con i suoi e quando il cameriere andò a prendere le ordinazioni lo rimandò indietro con un gesto sprezzante e una richiesta: «Mi fido solo del mio barman personale, i cocktail li fa lui». Dale Van Groff, per trent'anni barista alla «Rainbow Room», si sentì offeso, ma non ebbe il coraggio di opporsi: la Voce del cliente ha sempre ragione. Sinatra fece sparecchiare un tavolo da usare come bancone e il suo barman personale andò a scegliere i liquori. Nella sala si fece silenzio. L'orchestra tacque, in attesa. Fuori pioveva, ma sempre più piano, il grattacielo della Chrysler infilzava la luna e Dean Martin scalpitava perché aveva sete. Con cura da alchimista lo scagnozzo di «Occhi azzurri» dispose le bottiglie sul tavolo e versò attentamente Jack Daniel's fino a metà del bicchiere. Poi, con gesti misurati, prese la bottiglia dell'acqua e, nel silenzio assoluto, fece cadere una, due gocce d'acqua. Stop. Servì e Sinatra commentò: «Eccellente!», guardando Dale perché imparasse la lezione. Cos'ha imparato Dale, dietro al banco del bar più famoso d'America? Che le «celebrities» sono sciocche e vanagloriose, ancor prima che Woody Alien ci girasse un film per dirlo. Che la fama è come un ballo: ti fa girare la testa e quando la musica si ferma il silenzio ti sembra una condanna. Che nulla dura in eterno, non i liquori e neppure le bottiglie. Non la spensieratezza di quelli che ci sono passati volando sul marmo e, neppure, la «Rainbow Room». Signori, si chiude. Tramonto sulle grandi vetrate. Non ci sarà il party di Natale (quello che Ste¬ ven Shaw l'incontentabile recensì così: «Il cibo non era granché e anche la famosa vista, alla fin fine...»), né la tradizionale, demenziale, conga di fine anno. Sessantaquattro anni di storia sigillati dall'aumento di un canone d'affitto, nella Manhattan delle follie immobiliari, dove parlarne eccita più del sesso, la società Tishman Speyer che possiede i locali ha semplicemente chiesto 4 milioni di dollari l'anno invece di 3 e Jo Baum, detto «Atomic Baum», uno che è stato nei ristoranti tutta la vita, tranne quando ha combattuto in guerra (e lo cacciarono dalla cu¬ cina da campo perché voleva fare cannelloni alla Rossini) ha voltato le spalle. Al suo posto, i Cipriani, che però lasceranno aperto solo il bar e, nelle altre sale, allestiranno banchetti privati su ordinazione. Fine delle danze. Dale De Groff, senza musica, non miscela cocktail e il Bellini non è il suo forte. Ha preso i suoi sifoni e se n'è andato. Prima, raccontane un'altra. Ricorda che una sera, una in cui cantava Marianne Faithfull, venne Keith Richards, quello dei Rolling Stones e, per rispettare le regole di ammissione, portava, perfino lui, il cravattino. Ma non lungo, perché a metà dello spettacolo lo fece volare sul palco prima di mettersi a ballare come una scimmia in mezzo alla pista. Certo, non era all'altezza di Fred Astaire e Ginger Bogers, che accarezzarono il pavimento della «Promenade» una notte d'inverno, ma neppure a quella di Rosemarie Clooney, quando festeggiò le sue nozze abbracciata a Bob Hope. Chi suonava quella sera, non lo ricorda neanche Dale. Gli piace pensare che fosse Duke Ellington, ma non pare probabile. Quello che ama raccontare è la leggenda del Duca e della canzone sul menù. Lui aveva scritto più musica di chiunque in America, su qualsiasi cosa gli capitasse sotto mano: buste, cartoline, pezzi di cartone strappati dalle scatole di corri flakes. Di solito, lo motivava la scadenza: «Black and Tan Fantasy» la buttò giù sul taxi diretto allo studio discografico, «Solitude», in piedi, già in sala di registrazione, accorgendosi che gli mancava un brano per completare il disco. E una sera che aveva promesso un brano nuovo e arrivò senza averci mai pensato neppure per un secondo, scrisse le note mangiando, disegnando arabeschi musicali tra gli antipasti e i dessert. Quale fosse la canzone, Dale non lo ricorda e può darsi che tutto sia leggenda, anche se sta scritto pure nelle guide di New York, alla voce ristoranti e sale da ballo, ma ora nell'appendice «c'erano una volta»: «Rainbow Room», ritrovo per fantasmi, il Duca che suona, Sinatra che beve, Rita Moreno che balla con un presidente felice, Fred Astaire che annuisce battendo il tempo, poi via, tutti nella conga di fine anno, fine secolo, fine millennio, fine di tutto, perché la «Rainbow Room» come la videro loro non c'è più e anche Dale è andato via; tutta quell'allegria a caro prezzo si è sciolta come un cubetto di ghiaccio nel bicchiere. Gabriele Romagnoli Tra i clienti Dylan Sinatra e Clinton Al suo posto aprirà il bar di Cipriani In basso, il Rockefeller Centre: al 65° piano ospitava la Rainbow Room. A sinistra: Frank Sinatra e Manhattan
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