Cina, terzo no alla democrazia

Cina, terzo no alla democrazia Pechino dà la notizia delle condanne con un'enfasi che suona come un monito a chiunque voglia mettere in discussione il partito unico Cina, terzo no alla democrazia Dodici anni a un altro dissidente per sovversione PECHINO. Terza pesante condanna in due giorni per il dissenso in Cina: Qin Yongmin, 45 anni, esponente del partito democratico che mesi fa ha invano cercato di registrarsi e farsi riconoscere legittimità, è stato condannato a 12 anni di carcere per sovversione. Il regime, pur tollerando critiche che non minino il suo monopolio del potere, riafferma il proprio autoritarimo reclamando legittimità dallo sviluppo economico conseguito. La sentenza è stata emessa giovedi a Wuhan, ma è stata resa nota solo ieri. Lunedi a Pechino era stato condannato a 13 anni un altro esponente del partito, Xu Wenli, per lo stesso reato; e nello stesso giorno era stata data notizia di una condanna emessa la settimana scorsa a Hangzhou: 12 anni per Wang Youcai, che durante la visita di Clinton a luglio aveva presentato la richiesta di registrazione del partito. Per tutti e tre si afferma che avevano cercato di costituire una organizzazione illegale. Nessuno presenterà appello per non riconoscere legittimità ai processi. Di due di loro, Xu e Wang, si sa che parteciparono al movimento democratico di fine Anni 70, prima tollerato da Deng Xiaoping nel suo piano per smantellare il maoismo, poi duramente represso: il primo ha fatto 13 anni di carcere, il secondo otto. La notizia delle condanne, emesse dopo che il 5 ottobre la Cina aveva aderito alla convenzione Onu sui diritti umani, viene data dalle fonti ufficiali con un'enfasi che sa di severo monito contro il dissenso interno, quello all'estero e chiunque lo sostenga: si cita infatti l'aggravante che i tre avevano il sostegno di non meglio precisate «forze ostili» all'estero. L'alto commissario Onu per i diritti umani, Mary Robinson, reagisce con cautela, dicendo in una nota di continuare a fare pressioni su Pechino per il rispetto della libertà di opinione, espressione, associazione. Da Washington il vice segretario di Stato Strobe Talbott, esprime «profondo turbamento per le pesanti condanne e la totale mancanza di garanzie nei processi». Il portavoce del governo cinese difende le condanne, asserendo che «colpire il crimine e difendere i diritti umani» sono due facce della stessa medaglia. L'agenzia «Nuova Cina» afferma che i tre non sono stati condannati per le loro idee, ma perché «hanno violato il codice penale». Essa cita un giurista secondo cui la base dei verdetti è nella costituzione, per la quale la Cina è una dittatura popolare e democratica, fondata su sistema socialista. Perciò parlare di «repressione del dissenso» è distorsione per indurre in errore il mondo «e gettare fango sulla Cina». Condanne, dichiarazioni, reazioni, che ricordano molto il dissenso sovietico degli Anni Settanta. Tutto già visto, sentito, letto. Ma il dissenso cinese emerge in un ambiente interno e internazionale totalmente diverso. Quello sovietico, nella guerra fredda, veniva in Occidente amplificato. Accanto ad apostoli di verità e forza morale come Solzenicyn, acquisivano statura personaggi mediocri, che riflettevano comunque il disagio di una società repressa e sofferente a cui, in cambio della privazione di libertà, il regime non offriva alcun benessere materiale, ma solo code davanti a scaffali vuoti. Il dissenso cinese sembra votato al fallimento dal successo pratico di un regime saldo nel suo autoritarismo, ma trasformatosi sul piano ideologico, sociale e politico. «Arricchitevi», ha detto ai cinesi, rinunciando ai precetti maoisti che li avevano incatenati a fame e sottosviluppo. La mazzata della Tienanmen e la li- berta di iniziativa economica in un sistema in cui l'economia di stato conta ora solo per il 47% del prodotto nazionale lordo, tiene la gente lontana dalla politica; ma viaggia all'estero e ha contatti col mondo. Protagonisti della Tienanmen rifugiatisi in America sono finiti nell'anonimato, non trovando rispondenza in Cina. Alla trasformazione della società, in cui in vent'anni si è creata una classe media di circa 300 milioni di persone, si accompagnano all'interno del sistema richieste di riforme politiche che, quando non prendono di petto il regime, appaiono sui giornali ufficiali. Libri di aspra denuncia di corruzione delle alte sfere, di storture e ingiustizie, diventano best-seller. Ma il partito unico non si tocca. Che esso si chiami ancora comunista è accidentale. Fernando Mozzetti La protesta di un dissidente cinese che sfila, tra due agenti di polizia, con una gigantografia di Wang Youcai, condannato la settimana scorsa a dodici anni di carcere. Youcai durante la visita di Clinton nel luglio scorso aveva presentato una richiesta di registrazione del partito a cui appartiene

Persone citate: Clinton, Deng Xiaoping, Fernando Mozzetti, Mary Robinson, Solzenicyn, Strobe Talbott, Wang Youcai