Storie di Città

Storie di CittàStorie di Città PER porgere ai lettori i miei più affettuosi auguri di Buone Feste vorrei trovare il modo di farlo in maniera insolita. Mi piacerebbe, se i cortesi lettori non si offendono, confezionare degli auguri in forma di Bollito Misto. Sono ancora sotto la forte impressione di un evento accaduto non più tardi di ieri. Come scrive Carlin Petrini, fondatore dello Slow Food e ideatore del Salone del Gusto: «A buon diritto il Bue Grasso di Carrù si può ritenere la fiera più bella e intrigante del Nord Italia, uno spettacolo fatto di molti protagonisti, scandito nell'arco di una giornata da appuntamenti rituali che si ripetono anno dopo anno». La fiera nacque il 15 dicembre 1910 e da allora si è ripetuta, anno dopo anno, in un giovedì di metà dicembre. E' stata sospesa un solo anno, il 1944. Ma già l'anno dopo, il sindaco di allora invitava gli allevatori della zona «a riprendere la fiera del Bue Grasso pur in un tempo di Vacche Magre». Gli appuntamenti rituali a cui accenna Petrini sonoi seguenti: dalle 6 e mezzo della mattina la minestra di trippa, per scaldarsi, servita nei quattro ristoranti e nei caffè e il «brodo delle 11 » che prepara la strada al «Bollito Non Stop» che viene servito ininterrottamente fino a sera in un padiglione riscaldato. La novità di quest'anno è una mostra di straordinarie fotografie in bianco e nero presso la chiesa dei Battuti Bianchi, a cura del gruppo fotografico albese. Le foto sono poi riprodotte in una lussuosa monografia edita dalla Banca Alpi Marittime, che ha la sua se- de nel castello di Carrù, accuratamente restaurato. Se il governatore della Banca d'Italia la scopre la pretende per sé. Nelle fotografie del gruppo albese uomini e bestie hanno pari dignità ed è commovente osservare l'intensità degli sguardi che corrono tra l'animale e l'uomo che l'ha allevato fino a portarlo a quello splendore da fiera. Una didascalia del libro invita a osservare la «finezza dei lineamenti nelle facce delle vacche». Si dice che per il finissaggio della bestia, nei giorni che precedono l'esposizione, ogni allevatore cutodisca un suo segreto per il mangime. Mai e poi mai gli darebbero intrugli da farmacia: un bue grasso è molto più prezioso di un calciatore o di un ciclista. In ogni caso i prelievi sistematici e le analisi garantiscono da ogni manipolazione. Piuttosto si mormora di montagne di tajarin freschi e di dozzine di uova crude fatte mangiare all'aspirante campione. Fino allo straziante addio, quando l'allevatore consegna la sua creatura all'acquirente che la macellerà. Osservando sui banchi del mercato quelle enormi, lucide tenaglie di acciaio, uno si immagina altri momenti di intimità fra la bestia e l'uomo che, impugnando quello strumento, gli sussurra nell'orecchio: «Vedrai, è questione, di un momento, poi la tua vita scorrerà tranquilla e senza affanni». Poi zac! zac! e il vitello muggendo di dolore sembrerà che dica «ciau baie». Lo sguardo buono e paziente che caratterizza il bue pare che derivi da quel piccolo intervento. Il volume su «Carrù e la fiera del Bue Grasso» è completato da dodici saggi di altrettanti autori che raccontano la millenaria storia del paese, le sue glorie artistiche e le straordinarie vicende della razza bovina piemontese. Dal saggio di Milo Julini apprendiamo che la razza bovina piemontese nacque nel periodo Pleistocenico dell'Era Quaternaria (sembra ieri!) «dall'intrappolamento di un tipo di bovino Aurochs tra le Alpi e gli Appennini: il movimento spontaneo di questi animali verso Est era impedito da una zona acquitrinosa e paludosa che si estendeva dalla bassa valle del Tanaro fino alla Dora Baltea. Questa zona restò bloccata a lungo e con¬ senti ai bovini indigeni di svilupparsi naturalmente. Circa 30.000 anni or sono si inserì un altro gruppo di bovini, zebù provenienti all'incirca dall'attuale Pakistan: l'integrazione di questi con i bovini autoctoni del Piemonte originò l'attuale razza Piemontese, definita tauroindica antica. (Ecco cos'era quel retrogusto di zebù!). Un'altra storia interessante è quella del vitello cosiddetto «dia fasson» o «della coscia»; nel 1886 comparvero per la prima volta nel comune di Guarene i primi esemplari di questi vitelli che ora sono pregiati ma che a lungo vennero considerati delle mostruosità da non perpetuare, tanto che la fiera di Carrù nacque per contrastare questo pregiudizio. Per tornare al Bollito Misto degli auguri, deve avere almeno otto componenti, serviti a quattro per volta per averli belli caldi: scaramella, zampone, testina e coda e poi, in seconda battuta: piedino, cappone, lingua e muscolo. Fondamentali sono le salse; trascrivo quelle che vengono servite al ristorante Moderno ma che si trovano anche negli altri locali. I bagnetti rosso e verde, la senape, la salsa di miele e noci, il rafano che è il più piccante di tutti, la «cugnà», ovvero la marmellata di mosto, mele cotogne, noci, nocciole e fichi; infine le due mostarde, quella di Cremona, a base di frutta candita e speziata e quella di Treviso dove al posto della frutta c'è la verdura. Però se mi invitate a cena e manca una delle salse, visto che a Natale siamo tutti buoni, vi perdono. Auguri.

Persone citate: Carlin Petrini, Milo Julini, Petrini

Luoghi citati: Carrù, Cremona, Nord Italia, Pakistan, Piemonte, Treviso